Gustav Wertheimer - The Kiss of the Siren (1882)

Ascoltando le sirene

Simonetta Sciandivasci

Tutte buone quelle degli smartphone e della fiction tv. Ma non hanno ancora perso il loro fascino di morte

Quanto si sbagliava, su di loro, Gesualdo Bufalino. “Sirene, vissero feroci e stupende. Una laringite le vinse”, scrisse una volta, la sola in cui peccò d’ingenuità. E fretta. E funzionalismo. Perché, a guardar bene, non solo cantando, ma pure, tantissimo, silenziandosi, quelle bestiacce hanno attraversato i secoli, sono uscite dal “testo originale della civiltà europea” (così Adorno chiamava l’Odissea) e sono finite dappertutto, tra gli inuit e i cubani, le cosmografie e gli smartphone, le polene e le scatolette di tonno, i bestiari e le favole, i vivi e i morti, i cattolici e i marxisti, i marinai e i secchioni.

 

L’epica omerica ha impresso alle sirene una macchia umana che si ritrova in quasi tutte le tradizioni, credenze, simbologie a esse ispirate

Kafka immaginò che, all’arrivo di Ulisse, le sirene se ne stettero zitte: poteva esserci altro modo per fregare uno che, pur di ascoltarle, si era fatto legare all’albero maestro della sua nave e aveva tappato le orecchie dei suoi compagni con la cera, di modo che non si facessero tentare dal loro canto? Ma lui era Ulisse, il testimonial della tracotanza, l’umano inventato per sfidare gli dèi finendo con il subordinarli ai suoi scopi e figurarsi se era capace di ascoltare un silenzio: la sola cosa che sentiva erano i tamburi del suo orgoglio. Quelli udì, mentre veleggiava tranquillo sulle stesse acque dove chiunque altro era annegato, illudendosi che di nuovo l’ingegno l’aveva avuta vinta: quelli scambiò per la voce delle sirene, convincendosi per giunta di averle viste piangere per essersi fatto sfuggire cotanto bocconcino, e invece le bestiacce avevano semplicemente sbadigliato, pensando che il maschietto dal multiforme ingegno non valesse la pena. La paginetta di Kafka si conclude così: “Se le sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate, invece sopravvissero e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare”. Vive e invitte le sirene ci si sono mantenute perché non conoscono né fini, né mezzi: non conoscono il potere. Il mito che le vuole canterine maliarde deriva, dice Adorno ne La dialettica dell’Illuminismo, dal bisogno che Omero ha avuto di impilare il mondo e la natura umana dentro uno schema razionale: Ulisse che non cede alle sirene è l’uomo che “recide la coscienza di sé come natura” e, inibendo l’impulso alla felicità e al piacere, baratta entrambi per acquisire la dignità dell’eroe, lo statuto di individuo pensante, il dominio dell’uomo sulla sua propria bestialità, condizione indispensabile per farsi padrone del mondo. Affinché l’uomo si stacchi dal piacere, c’è bisogno di convincerlo che non farlo lo assassinerebbe: è per questo che l’epica omerica assegna alle sirene la tentazione e, da incolpevoli perché incoscienti – e incoscienti perché improduttive e improduttive perché creature del sogno –, le trasforma in colpevoli perché irresponsabili. L’epica omerica ha impresso alle sirene una macchia umana che si ritrova in quasi tutte le tradizioni, credenze, metafore, simbologie a esse ispirate.

 

Secondo alcune fonti, fu Afrodite a renderle passeriformi per punire la loro ostinata verginità (si rifiutavano di fare l’amore persino con gli dèi)

Eppure. Sei bello e giovane, dovresti seguirmi ed essere felice per sempre, non credere alle storie su di noi, “non uccidiamo nessuno, amiamo e basta”, dice Lighea, figlia di Calliope (breve curriculum vitae: musa della poesia , ispiratrice di Iliade e Odissea, figlia di Zeus e Mnemosine) a Rosario Li Ciura e glielo dice in greco antico, lingua che lui si è rifugiato a studiare, in una afosissima estate sicula, in una casupola in prestito ad Augusta, sul mare. La storia, nota parecchio, è quella che Tomasi di Lampedusa scrive, non molto prima di morire, nel suo racconto più amato, La Sirena. Li Ciura è vecchio, incazzato e pure troppo lucido quando, a Torino, incontra un corregionale giovane e costumato, Paolo Corbera di Salina e gli racconta le tre settimane d’amore con Lighea. Sono trascorsi, da allora, decenni, ma lui, di lei, non ha scordato niente. Il sorriso: “Non era uno di quelli come se ne vedono tra voialtri, sempre imbastarditi da un’espressione accessoria, di benevolenza o d’ironia, di pietà, crudeltà o quel che sia; esso esprimeva soltanto sé stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia”. Il sesso: “La trasposizione necessaria dal piano bestiale a quello sovrumano, piano, nel mio caso, sovrapposti”. La fame: “Non mangiava che roba viva”. E soprattutto: “All’oscuro di tutte le colture, ignara di ogni saggezza, sdegnosa di qualsiasi costrizione morale, essa faceva parte, tuttavia, della sorgiva di ogni coltura, di ogni sapienza, di ogni etica e sapeva esprimere questa primigenia superiorità in termini di scabra bellezza”. Sasà Li Ciura, all’opposto di Ulisse, trova che la sapienza non consista nella correzione umana della verità, bensì, molto prima, nella sua naturale bestialità, nella sua immediatezza, nella fonte, nell’origine. Conoscere significa immersione e non emersione. A proposito de La Sirena di Tomasi di Lampedusa, Salvatore Nigro, nel suo “Il principe fulvo”, sottolinea l’impiego dell’avverbio laggiù, cui Li Ciura ricorre per riferirsi alla Sicilia e nota che “dà un suono fondo, nel racconto, un’eco come di luogo cavo e in qualche modo arcaico”. Laggiù, scrive, è “l’avverbio del fantastico e del mitologico ctonio”. Lighea è l’Indifferente e la Benefica, è la natura irreprensibile in cui l’essere umano si scopre strumento. La sirena di Omero e del suo Ulisse, invece, è la censura della natura, l’occasione umana per ingabbiarla e procedere ad assoggettarla. Sono due opposti che, però, non si annullano: nelle sirene non si annulla niente, tutto convive. E’ la virtù, questa, che deriva dalla loro impermeabilità al potere e, anche, al significato, che è vizio e obbligo umano, mortale. Prima di diventare pesci, pescioline, donne del mare, le sirene sono state uccelli. Anzi, uccellacci. E prima ancora serpenti. Insomma, ibridi. Come tutti gli ibridi, le sirene sono nate nella fantasia degli uomini per rispondere al loro bisogno di creare un legame psicologico con gli animali. La premessa di Meri Lao, scrittrice e studiosa, a qualsiasi suo ragionamento, libro, discorso (ne ha fatti moltissimi, per tutta la vita) sulle sirene è, infatti, sempre questa: quando l’uomo primitivo comprende che le bestie non sono solo cibo e pericolo, ma pure una manifestazione di estraneità, capisce che gli toccherà dividere il mondo con loro e, quindi, con loro prova a fondersi, creando così entità biologiche dotate di una forza sovrannaturale.

 

Come che sia avvenuta, la trasformazione delle sirene da serpi nefande e uccellacce cannibali appollaiate su cataste di cadaveri a pescioline sexy con la zona riproduttiva del corpo inguainata in una coda di tonno e le conchiglie sopra le tette, da malefiche a benefiche, da annegatrici a bagnine, nulla ha potuto sul loro disturbo e sul loro fascino, che è ancora un fascino di morte. Secondo alcune fonti, fu Afrodite a renderle passeriformi per punire la loro ostinata verginità (si rifiutavano di fare l’amore persino con gli dèi, quelle screanzate). Brunetto Latini (siamo nel 1200), invece, scrisse che abitavano nell’acqua perché “la lussuria fu fatta di umidità”. Se anche i pesci disegnati dai primi cristiani simboleggiavano Gesù Cristo, le donne-pesce e le donne-serpente, in buonissima parte dell’iconografia cristiana trafiggono Adamo e tormentano il figlio di Dio durante la via Crucis. Tuttavia, nell’ingresso di San Giovanni a Mare, chiesa napoletana, c’è la testa della sirena partenopea che fondò la città.

 

L’acqua è sia strumento battesimale, elemento purificatore, sia habitat del peccato, della stagnazione, dell’oscuro femmineo

L’acqua è sia elemento purificatore e strumento battesimale che habitat del peccato, della stagnazione, dell’oscuro femmineo. Le sirene della tradizione germanica sono donne marine ma non hanno niente dei pesci, i loro corpi sono interamente umani: nonostante questo, rappresentano comunque l’unione di forze opposte che, se unite, sono destinate ad annullarsi. La sola Sirenetta risolta è quella della Disney, che infatti è tratta da una favola, quella di Andersen, cui gli sceneggiatori hanno appeso un lieto fine completamente arbitrario. Ariel, nel cartone animato, sposa il principe che ha salvato dall’annegamento, si fa appiccicare due gambe umane al posto della coda dal magico tritone di suo padre, re del mare e vissero felici e contenti. La Sirenetta di Andersen va sì sulla terra per amare il principe che ha salvato, rinuncia sì alla coda e le branchie, ma (attenzione, spoiler), muore. Più che accarezzarsi a riva, la terra e il mare non possono fare. Vale lo stesso per le loro creature. Per raggiungere Lighea, a Li Ciura (attenzione, spoiler) non resta che gettarsi in mare e annegare. Ne Il porto delle nebbie, Jacques Prevert ha scritto: “Quando vedo un uomo che nuota dipingo un annegato. Allora, se le sirene sono sopravvissute al farsi suicida della loro mitologia è stato anche perché hanno preso a incarnare la via d’uscita dal paradigma dell’annegamento, un incontro possibile, la nuova e forse ultima salvezza dell’umanità.

 

La scorsa estate, Marsilio ha ristampato Sirene di Laura Pugno: è un romanzo distopico e terribile, dove le sirene sono “carne di mare” da allevamento. Quando il libro è uscito la prima volta, esattamente dieci anni fa, Tiziano Scarpa ne ebbe a dire che rappresentava “il passaggio di testimone a un’altra specie a cui affidare la gestione del mondo”. Guardiamoci intorno: il nostro tempo e il suo immaginario grondano di sirene. Buone. Nostre alleate. Naturalmente a nostra immagine. Tutte, da quelle della fiction Rai di Davide Marengo, andata in onda a novembre scorso, a quelle richiamate dalle chiome verdi e blu che hanno preso a circolare tra adolescenti e nonne (si rifanno alle sirene anche le estensioni colorate delle ciglia, ultima bizzarria dei centri estetici), a quelle che a ottobre l’aggiornamento iOs ha messo a disposizione della messaggistica degli smartphone, per addomesticate e fesse e manipolate che siano, innestano in noi il ripristino di ferinità e purezza, l’abbandono del giudizio e la sua rifondazione.

 

Un numero crescente di donne crede che nuotare con addosso una enorme pinna caudale le aiuterà a sentirsi viscere dell’oceano

Un antico proverbio marinaro dice: “Chi è in mare naviga, chi è in terra giudica”. Significa tanto che il mare è faticoso per l’uomo, quanto che in mare si sfugge all’etica degli uomini: per questo lo stiamo candidando a luogo ideale del suo ripensamento. Perché proprio non impariamo mai. Proprio non ci riusciamo a non farci misura di tutte le cose e a usarle per dire cosa è buono e cosa è cattivo. Perché noi vogliamo salvarci. “Il mare cura tutto”, ha detto Francesca Magnone, insegnante di mermaiding, al Corriere della Sera, la scorsa estate. Il mermaiding è il nuoto con la coda: dall’America, dove ha attecchito diversi anni fa, è arrivato di recente in Europa e nelle sue piscine, dove un numero sempre crescente di donne crede che imparare a nuotare con addosso una enorme pinna caudale le aiuterà a sentirsi viscere dell’oceano così come sono le sirene. “Frattanto i pesci, dai quali discendiamo tutti, assistettero curiosi al dramma collettivo di questo mondo che a loro indubbiamente doveva sembrar cattivo e cominciarono a pensare nel loro grande mare com’è profondo il mare”. Lucio Dalla, naturalmente. Ricordate? Ecco, noi non saremo mai pesciolini e non saremo mai sirene perché non sapremo mai dire “com’è profondo il mare” senza aggiungere un valore, senza volerlo comprare, indagare, ammansire e sfidare. Su tutti i siti che offrono corsi di mermaiding si legge che la disciplina “migliora la propria acquaticità” e, soprattutto, insegna a rispettare l’ambiente marino.

 

Torniamo alla Disney: “Noi volevamo soltanto affogarla!”, sbraitano in coro le sirenette amiche di Peter Pan, quando lui interviene a salvare quella svampita noiosa di Wendy, cascata nelle loro grinfie. Che stronze, vero? Meglio Ariel, no? Ehi, voi della Disney, fate un film da qualsiasi cosa, fatelo anche da La Sirenetta, ha twittato la scorsa settimana Serena Williams. Il 2017 ha chiesto, voluto e riavuto le sirenette, ma non le sirene. Quelle, comunque, non smettono di suonare, allarmarci, dirci che qualcuno sta compiendo un passaggio, qualcosa sta cambiando, un dolore s’è ingrandito, un piacere s’è estinto, un incendio ha divampato, una casa è stata assalita, una macchina rubata: e noi ci dobbiamo fermare, fare da parte, azzittire. E ascoltarle, una buona volta, per tremendo che sia, poiché “sanno tutto di te e il meglio di te è un canto di sirene e si sente nel rimpianto di quanto è mancato; quello che hai intravisto e non avrai, loro te lo danno solo col canto, ti cantano di come sei venuto dal niente e niente sarai”. E questo era Vinicio Capossela.

 

Carmen Consoli, dieci anni fa, su un disco sulla cui copertina si era fatta ritrarre congelata in un reparto pescheria, cantava che “sorde e implacabili, le sirene sono ferite aperte”.

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