Foto di Mario Mancuso via Flickr

Quant'è aggressivo il populismo sui social degli aspiranti scrittori

Vanni Santoni

Esperienze di vita e strane idee sul self-publishing

Sono finito in un gruppo Facebook dedicato agli aspiranti scrittori. Lo so che non si dovrebbe andar per gruppi Facebook. Temo di esservi entrato per copincollare il link all’articolo di un amico che reputavo degno di diffusione. Colpa mia, quindi. Pure, sono dentro. Pure, leggo. L’ultimo post è di una signorina che chiede se sia una buona idea registrare il proprio manoscritto – il manoscritto, non il libro edito – alla Siae. Di fronte a una richiesta così astrusa, avendo ritenuto fin lì che a venire plagiati fossero i libri già editi o comunque circolanti, risalgo i suoi interventi e scopro che, nella sua immaginazione, le case editrici non vivrebbero nella speranza di scovare nuovi autori, ma in quella di riceverne i manoscritti, rubarli e girarli agli scrittori della scuderia così che li pubblichino a loro nome. Decido di intervenire: su Facebook non porto il mio vero nome, e non c’è quindi il rischio di venire sommerso di manoscritti, come capita ogni volta in cui mi paleso come curatore di una collana di narrativa. Le consiglio di non farlo, spiegando che non solo sarebbe una spesa inutile ma la qualificherebbe come ingenua agli occhi di un qualunque editor. Quella mi risponde risentita, dandomi di presuntuoso. A stretto giro interviene anche un giovanotto, che dalla foto profilo deduco essere il fidanzato, intimandomi di smetterla di “far rimanere male le persone”.

 

Per quanto i commenti di Facebook siano luoghi strani, una cosa del genere non mi era mai capitata. Chiudo il laptop un po’ stranito, chiedendomi se anche nei gruppi di cucina si reagisca così rispetto a una dritta su qualche ricetta. Sarebbe finita lì, ma nel frattempo Zuckerberg si è accorto che sono intervenuto su quel gruppo e così il giorno dopo mi propone una notifica: c’è una discussione sull’editoria a pagamento. Essendo un tema di cui ho scritto spesso, entro, e noto con piacere che tutti si scagliano contro l’“Eap” come fosse Belzebù. Così azzardo un commento. Nel post si parla del fatto che un editore onesto non chiede soldi. Aggiungo che un editore onesto, in genere, i soldi li dà. Non l’avessi mai fatto: subito vengo aggredito da uno, due, tre utenti a dirmi che non è vero, che l’anticipo non è la prassi. Il tutto con una viva aggressività, condita di affermazioni bizzarre come “una prima tiratura da cento copie è lo standard” – e inutile cercare di spiegare che se non ne tiri almeno un migliaio, in libreria non ci arrivi nemmeno. Studiandomi i profili capisco di aver ferito l’orgoglio di persone che avevano pubblicato con un microeditore (una di loro era, in effetti, il microeditore in questione). Uno di quelli, proliferanti da quando il pubblico ha capito che l’Eap è Belzebù, che sparano nelle loro homepage enormi “Pubblica gratis il tuo libro”, salvo poi non distribuirlo, non promuoverlo, non inviarne copie stampa, non mandarlo a fiere e premi, insomma non pubblicandolo, ma facendo comunque un piccolo profitto tra l’abbattimento dei costi di stampa portato dal digitale e il centinaio di copie che vanno via tra amici e parenti. Troppa fatica spiegare a quelle persone che non avevano veramente pubblicato il loro libro; e poi l’editrice sembra una brava persona, né vi è nel suo business un intento sufficientemente losco tale da scatenare savonarolismi da parte mia.

 

Così mi limito a dire “vabbè, meglio del self-publishing…”.

 

Errore.

 

Ecco orde di self-publisher armati di fiaccole e forconi a gridarmi che il self-publishing è fantastico e si trovano benissimo e viva il self-publishing. E’ lì che credo di aver capito: è tutta causa della mia identità segreta. E’ normale, arriva uno sconosciuto nuovo in un forum e si mette a dar consigli, chi si crede di essere questo? Così mi paleso: spiego che sono un editor, che dirigo una collana, che io stesso ho pubblicato per editori piccoli e grandi e quindi conosco i meccanismi dell’editoria.

 

La risposta: “Ah, sei uno di loro”. “Loro chi?”, chiedo sgomento. “Voi, l’editoria, quelli che non ci vogliono far pubblicare”.

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