Peter Sloterdijk

L'insana passione dell'erudito Sloterdijk per i mistificatori Heidegger e Derrida

Alfonso Berardinelli

Pagine comiche nell'ultimo lavoro del filosofo tedesco

Stando al poco che ormai sappiamo e leggiamo della filosofia tedesca di oggi, il nome che ricorre più spesso, dopo il ben noto Habermas, è quello di Peter Sloterdijk. Lessi qualcosa anni fa e mi sembrò inconsistente. E’ vero, Sloterdijk non è gergale, è un gran parlatore e si legge facilmente, mentre il vecchio Habermas sembra che non abbia una lingua: i suoi discorsi sono costruiti come un mosaico di formule ricorrenti sempre uguali a se stesse. Se ci si distrae un momento, si ha l’impressione di leggere sempre la stessa pagina. Habermas è un onestissimo e convinto liberal-democratico. Ma è anche il più autorevole allievo di Horkheimer e Adorno, cosa che rende il suo modo di scrivere poco socievole.

 

Sloterdijk è anche troppo socievole. Si sente che è stato influenzato dalla filosofia anglosassone, ma ha letto molto i francesi e il suo amore per Jacques Derrida è il suo punto debole, perché Derrida è il più brillantemente disinibito e noioso chiacchierone della filosofia del secondo Novecento. Volevo dire: di chiacchieroni filosofici ce ne sono molti altri (in Italia abbondano), solo che Derrida è stato internazionalmente il più famoso (dopo Foucault, che chiacchiera meno e recita da storico erudito).

 

Di Sloterdijk è appena uscito da Bollati Boringhieri un ambiziosissimo libro intitolato Che cosa è successo nel XX secolo?. Non so se il libro risponda davvero a un tale interrogativo. Però si legge volentieri. L’autore ha studiato e da lui si possono imparare diverse cose, per esempio questa: “L’arte di scrivere una Costituzione – come insegna soprattutto l’esempio tedesco – sta proprio nell’equilibrare tra loro due tendenze di intenso ‘pathos’: il ‘pathos’ della fondazione della comunità e quello della tutela dei diritti individuali. Un esercizio di equilibrio che prende spunto da un’antropologia bipolare secondo cui, nella natura stessa dell’uomo, sono presenti sia la tendenza all’empatia e alla cooperazione sia quella all’egoismo e al comportamento antisociale”.

  

E’ la cosa che si chiama liberaldemocrazia, moralmente concepita per essere appunto sia liberale (l’individuo libero) che democratica (il potere è del popolo) allo scopo di mettere d’accordo tutti in teoria. Lo sapevamo già. Solo che questa astuta saggezza contiene anche, suggerisce Sloterdijk, un germe patologico: è “bipolare”, come si dice clinicamente dei maniaco-depressivi, che si esaltano e poi si abbattono. E’ così anche la democrazia: promette molto e mantiene poco. Rimanda comunque a un futuro reso migliore dalle molte riforme da fare. Dal libro si impara anche che cos’è “l’antropocene”, l’era in cui “l’uomo è diventato in tutto e per tutto responsabile dell’insediamento e della gestione della Terra”. Non si integra nel pianeta, lo domina.

 

La prosa di Sloterdijk è fatta di pochi termini tecnici (chiama per esempio “situazione mnestica” la capacità di ricordare) e di molto buon senso. Anche se ogni tanto si esalta bipolarmente con l’uso di frasi come: “il mio approccio sferologico è basato su un’ermeneutica dell’esistenza antigravitazionale o sgravata, che comprende una pars destruens e una pars construens…”.

 

La cosa più deplorevole e contraddittoria in un uomo così assennatamente erudito e ciarliero è la sua passione insana per i due filosofi à la mode più ripetitivi e mistificatori: Heidegger e Derrida. La loro prassi mistificatoria si basa sull’inesauribile inconcludenza dei loro discorsi: il pensiero dell’Essere (Heidegger) e la Decostruzone o smontaggio di ogni altrui discorso (Derrida). Mi scuso dell’autocitazione, ma una delle creazioni definitorie di cui vado più fiero l’ho realizzata un quarto di secolo fa: “Di qualunque cosa Derrida annunci di parlare, parlerà del modo in cui sta parlando della cosa di cui non parla”. Naturalmente il buon Sloterdijk non si è accorto della vacuità del suo collega francese. Anzi evidentemente la ammira, la trova produttiva e affascinante.

 

Il capitolo che gli dedica ha un titolo che potrebbe suggerire una sostanziale riserva mentale: “Il filosofo nel castello dei fantasmi”. Sì, in effetti la filosofia di Derrida lotta con i fantasmi della metafisica, che secondo lui si annida dappertutto, è un’illusione o un incubo che ci impedisce di vivere (vivre sa vie diceva Jean-Luc Godard). Sloterdijk dimostra di aver studiato Derrida fin troppo, non si annoia mai: lo ha messo in relazione perfino con Thomas Mann, Hegel, Freud e diversi altri. Il meno che si può dire è che Sloterdijk non ha il senso delle misure e delle proporzioni, come quasi tutti quei filosofi (Derrida al primo posto) che seguendo Nietzsche ed esasperandone l’unicità si mettono a “rovesciare” tutta la tradizione filosofica occidentale da Platone in poi, presentandola come un unico corpo omogeneo. In realtà la metafisica (un’ipotetica realtà immobile fuori del tempo e dello spazio) è stata già superata da molti, per esempio Montaigne, Hume, Kant, Leopardi, Marx e diversi altri: dopo di loro, cioè dopo quattro secoli, c’è poco da rovesciare. Però recitare la parte di chi non fa altro, eroicamente, che smascherare e demolire offre sempre un eccitante spettacolo (per ingenui e accademici).

 

Piuttosto comiche sono le pagine che Sloterdijk dedica a un’affermazione secondo lui fondamentale di Derrida, cioè alla sua confessione di non essere riuscito ad accettare l’idea della propria morte. Ci si chiede chi sia mai riuscito e riesca ad accettarla. Tanto per fare un esempio, Tolstoj, anche in tarda età, era quasi convinto che gli altri sì, ma lui non sarebbe mai morto.

 

Il solo altro filosofo al quale nel libro Sloterdijk dedica un intero capitolo è “l’orco della Selva Nera” Martin Heiddeger. Il tema centrale è subito enunciato nella prima frase: “La politicizzazione dell’esegesi di Heidegger ha raggiunto un livello senza precedenti nella storia delle idee”. Insomma, sarebbe scandaloso parlare del fatto (un reale fatto) che Heidegger era un nazista: naturalmente un nazista a modo suo, nel modo di un “uomo superiore”, di un filosofo che ribattezza tutte le realtà del mondo e quindi finge di parlare di ontologia, di essere e di ente, mentre parla della Germania e del fatale destino politico che Hitler ha saputo riconoscerle.

 

Non è che Heidegger fosse un impolitico politicamente irresponsabile. E’ che la sua filosofia, dice Sloterdijk, incontrando il tempo storico e l’umanità collettiva, andò al fondo di uno stato d’animo epocale: la noia. I nazisti si annoiavano, per questo diventarono nazisti. Dice Sloterdijk: “La Comune anonima di coloro che davvero si annoiano profondamente costituisce la forma originaria di un collettivo che di lì a poco per un momento si condensa sotto il nome storico di Nazionalsocialismo”. Heidegger era quella cosa, ma non usava la parola giusta per nominare la cosa.

 

Lo aveva capito anche Baudelaire, che chiamò la noia “mostro delicato” che può precedere il crimine. Quello che nell’Ottocento era un dandystico mostro delicato, nel Novecento è diventato un brutale mostro di massa. E io annoiandomi di Heidegger rischio di diventare come lui? No, è solo di lui che mi annoio. Anzi mi diverte la sua titanica faccia di bronzo.

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