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Il politicamente corretto uccide la moda

Giulio Meotti

Fu accusato di “razzismo” per aver fatto sfilare le modelle coi rasta. Ora il grande Marc Jacobs attacca la “pericolosa mentalità” che “minaccia” la creatività (dopo che Mel Brooks ha parlato di “morte” della comicità)

Roma. Due settimane fa, parlando alla Bbc, il leggendario attore Mel Brooks ha detto che il politicamente corretto è “la morte della comicità”. Ha spiegato che oggi non gli sarebbe possibile fare “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”, che ha come co-protagonista uno sceriffo nero. “Non penso sarei riuscito a fare i miei film al giorno d’oggi, non so, magari ‘Frankenstein Junior’, ma ‘Mezzogiorno e mezzo di fuoco’ no, perché siamo diventati stupidamente politicamente corretti e questo rappresenta la morte della commedia”, ha detto Brooks. Una piaga che ora infesta anche il mondo dell’alta moda, quello apparentemente più innocuo e avulso dalle diatribe ideologiche e culturali.

 

Due anni fa, Marc Jacobs, l’ex genio creativo di Louis Vuitton, ebbe la sciagurata idea di mandare in passerella a New York le sue modelle, bellissime e bianchissime, con una acconciatura fatta di “dreadlock”, i famosi rasta tipici delle donne di origine africana. Contro Jacobs piovvero accuse di “appropriazione culturale” e “razzismo”, oltre che di “mancanza di sensibilità”. “A tutti coloro che gridano all’‘appropriazione culturale’: trovo buffo che nessuno critichi le donne di colore che si stirano i capelli”, rispose il celebre stilista. “Rispetto le persone, e sono ispirato da loro… non vedo colore o razza, vedo persone. Troppa gente ha vedute ristrette”. Le polemiche lo costrinsero a un parziale mea culpa. Lo scorso weekend, Jacobs è tornato sulla vicenda, allargando il tiro al politicamente corretto che, a suo dire, oggi infesterebbe tutta l’industria del fashion. Parlando a cinquecento studenti della Oxford Union, Jacobs ha detto: “Penso che sia molto pericoloso dire: ‘Non puoi usare questo, non puoi guardare questo, non puoi ispirarti a questo’”. Secondo il grande stilista, l’ondata di politicamente corretto, che definisce come colui che “resta nel proprio viottolo”, è una “minaccia” alla creatività ed è “un modo di pensare molto pericoloso”.

 

Un anno fa, la scrittrice americana Lionel Shriver salì sul palco del Brisbane Writers Festival, la principale kermesse letteraria australiana, sfoggiando un sombrero. Lo fece per protestare contro la piaga che attanaglia la letteratura contemporanea: l’“appropriazione culturale”. E’ il dogma che impone agli scrittori di trattare con rispetto le minoranze. Il mese scorso, alla New York Fashion Week, l’influente rapper Nicki Minaj si era lanciata in una filippica contro il mondo della moda reo di “appropriarsi” della cultura afroamericana. “Grazie, Philipp Plein (grande stilista di origine tedesca, ndr) di includere la nostra cultura”, aveva detto Minaj. “Gli stilisti si fanno davvero grandi e ricchi con la nostra cultura, e poi non vedi mai un cazzo di nessuno di noi in prima fila”. Il fashion ormai veste pensiero unico. Fece non poco scalpore l’attacco che il compianto Pierre Bergé, il compagno di Yves Saint Laurent, portò agli stilisti che vendono abbigliamento islamico e veli perché “contribuiscono alla riduzione delle donne in schiavitù”. Prima ancora c’erano state le polemiche contro Dolce e Gabbana, rei di aver detto di credere alla famiglia tradizionale. Da qualche tempo, il mondo del fashion è percorso da un’ondata di perbenismo. Prima Valentino è stato accusato di usare soltanto modelle bianche e di essersi appropriato della cultura africana, poi la rivista Vogue è stata tacciata di “insensibilità” per aver fatto vestire la modella Karlie Kloss come una geisha giapponese, e infine la Louis Vuitton, che nel 2012 fu accusata di aver rubato troppo dalla cultura Masai.

 

E’ il paradosso di un mondo dorato che ha sempre preteso di essere la massima istanza del cosmopolitanismo, il famoso “vestire globalizzato”, e ora castigato per aver fuso culture differenti in un pezzo di stoffa. E’ la grande monotonia che paralizza i comici e rende tristi gli stilisti.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.