Con Kazuo Ishiguro il Nobel per la Letteratura l'ha vinto finalmente il romanzo

Mariarosa Mancuso

A vincere è stato lo scrittore giapponese soltanto per via dei genitori, arrivati in Gran Bretagna quando il futuro scrittore aveva sei anni. A vincere non è stata la geopolitica

Non si era detto Haruki Murakami? Si era detto, certo che si era detto, ma gli svedesi del Nobel sono testoline imprevedibili (anche un po’ indietro con la tabella di marcia: qualche anno fa il presidente dell’Accademia svedese certificò che gli scrittori americani non erano maturi né per la medaglia d’oro né per i novecentomila euro). Si era dato il giapponese Murakami, tra i favoriti. Ha vinto Kazuo Ishiguro: giapponese soltanto per via dei genitori, arrivati in Gran Bretagna quando il futuro scrittore aveva sei anni. Nato a Nagasaki nel 1954, scrive in inglese e da cittadino naturalizzato ha un debole per le istituzioni britanniche: il maggiordomo e in genere la servitù, la fantascienza, i detective, Re Artù, il fantasy ispirato a Tolkien e al “Signore degli Anelli”.

Un momento, prima del ritornello “Ishiguro chi?”. Quest’anno funziona meglio l’upgrade: “Non ho letto i romanzi, ho visto i film”. I fan di “Quel che resta del giorno” – regia di James Ivory, con Anthony Hopkins e Emma Thompson, esiste una combinazione più british? – sappiano che all’origine c’era un romanzo di Kazuo Ishiguro. I fan – molto meno numerosi – di –“Non lasciarmi”, diretto da Mark Romanek (con Keira Knightely, Carey Mulligan, e Andrew Garfield) sappiano che all’origine c’era un altro romanzo di Kazuo Ishiguro. L’ultimo – “Il gigante sepolto” – con i suoi orchi e i suoi draghi usciti dalla Terra di Mezzo più che dal mondo fluttuante di Utagawa Kuniyoshi (in mostra alla Permanente di Milano, per capirsi va bene anche dire “il pittore giapponese dei gatti”) attende sceneggiatori che ne ricavino un piccolo “Game of Thrones”.

 

 

Kazuo Ishiguro piace ai registi perché racconta storie. Dopo i reportage narrativi di Svetlana Alexievich e i versi di Bob Dylan finalmente ha vinto un romanziere. Uno che inventa personaggi e trame, senza cercare ogni minuto di togliere il terreno sotto i piedi del lettore. Come ormai amano fare gli estenuati europei, decretando la morte del genere ogni volta che capita l’occasione (e anche quando l’occasione non capita).

 

Chi arriva dalle periferie dell’impero – o da un impero periferico come il Giappone – invece si innamora di una forma tanto collaudata ed elastica, capace di inglobare quel che trova sul suo cammino. Non capisce perché la stiamo buttando via, e volentieri la adotta. Oltre a Kazuo Ishiguro, lo hanno fatto l’indiano Salman Rushdie e il pachistano Hanif Kureishi, dando una bella scossa alla letteratura britannica della seconda metà del Novecento. E vincendo premi importanti, tra qualche mugugno.

 

Con una differenza. Kureishi e Rushdie conservano un legame con i paesi d’origine, o i quartieri etnici della capitale e delle città britanniche, e quando abbandonano il loro territorio perdono vivacità. Kazuo Ishiguro è invece l’emigrante perfetto. Un paio di libri “giapponesi” (“Un pallido orizzonte di colline” e “Un artista del mondo fluttuante”) e nel 1989 arriva “Quel che resta del giorno”: il più classico dei romanzi upstairs/downstairs, ovvero gli antenati della serie “Downton Abbey”. Il fatto che l’abbia scritto un giapponese, e non l’aristocratico snob Julian Fellowes, ha del miracoloso. Vale lo stesso per il modo di scrivere: i suoi traduttori lo paragonano a Ian McEwan (quando McEwan è bravo, come nell’ultimo romanzo “Nel guscio”).

 

Il giapponese che volle farsi britannico è perfettamente riuscito nel suo intento: il migrante ideale, senza nostalgie per ciliegi in fiore anche se parlava giapponese in casa. Come gli scrittori che lo hanno preceduto, non ha pregiudizi verso i generi popolari, per esempio la fantascienza. Può piacere o non piacere – dipende da quanta fantascienza avete letto prima, in tal caso potreste trovarlo un po’ lento – ma per una volta il Nobel per la Letteratura lo ha vinto il romanzo, non la geopolitica né le minoranze. Ancora malata grave risulta invece la prosa di chi scrive le motivazioni del premio. Parlano di abisso e calcolano che Ishiguro è Jane Austen più Franz Kafka con una spruzzata – tenetevi – di Marcel Proust.

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