Slavoj Zizek (foto LaPresse)

Regressioni e populismi

Alfonso Berardinelli

La difficile impresa di capire il nostro tempo evitando i luoghi comuni

Come si fa a non leggere con disperata curiosità un libro intitolato “La Grande Regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo”? Un tale libro, a cura di Heinrich Geiselberger, è stato pubblicato ora da Feltrinelli (235 pp., 19 euro). L’originale tedesco è uscito all’inizio del 2017, questa traduzione italiana è dunque particolarmente tempestiva, fatta con urgenza. Dei quindici autori (ignorante come sono) ne conoscevo soprattutto due, il notissimo e molto saggio Zygmunt Bauman, e il banale, sempre un po’ ciucco e delirante Slavoj Zizek, mentre degli altri tredici non trovo nel libro nessuna notizia.

 

Per giustificare il più velocemente possibile gli aggettivi con cui qualifico Bauman e Zizek, dico soltanto che il primo, equilibratissimo, intitola cautamente il suo scritto “Sintomi alla ricerca di un oggetto e di un nome”. 

 

Come dire che la prima cosa da fare è capire di che cosa stiamo parlando quando parliamo dell’oggi. Mentre Zizek, fin dal titolo, “La tentazione populista”, semplifica e confonde al massimo, accettando il luogo comune, comunissimo, che il cosiddetto populismo è solo un peccato da non compiere, mentre lui recita beatamente da rivoluzionario “marxista lacaniano” (è un’autodefinizione) avendo pubblicato nel 2009 un libro populisticamente intitolato “In difesa delle cause perse.

 

Materiali per la rivoluzione globale”. Come dire: eccomi qui, neoproletari di tutto il mondo umiliati, offesi e perdenti, io, Zizek, sono con voi, faremo insieme una rivoluzione globale e io vi offro argomenti e istruzioni per farla. Ho letto il volume nel corso di una sola giornata, nella ricerca ansiosa delle spiegazioni che titolo e sottotitolo promettono. Cinque saggi li ho letti con la matita in mano, gli altri li ho divorati notando molte ovvie ripetizioni, al primo posto, appunto, l’uso intensivo del termine “populismo”: nei casi migliori accompagnato dalla distinzione fra populismo “di destra” e populismo “di sinistra”, mentre altre volte, purtroppo, si finisce per parlare più delle pessime ragioni del primo, quello di destra, che delle buone ragioni del secondo, quello di sinistra.

 

Non vorrei essere sofistico, ma lo stesso titolo, “La Grande Regressione”, è discutibile, perché presuppone che esista una cosa certa chiamata Progresso, che è sempre nelle mani della sinistra, e se alla sinistra sfugge di mano bisogna restituirgliela, in modo che possa salvare il mondo. Solo che dire “destra” e “sinistra” è ovviamente poco: esistono da tutte e due le parti l’estremismo e la moderazione, e se oggi si tira troppo la corda da una parte o dall’altra si finisce dritti dritti, ciecamente e nostalgicamente, nell’opposizione novecentesca comunismo-fascismo, comunque siano intesi e meccanicamente riusati questi termini. Rivoluzione e reazione, progresso e regresso, ordine e disordine, libertà e regole, stato e mercato e simili, sono parole che credono di spiegare le cose “in ultima analisi” e in termini di “extrema ratio”, ma spesso senza analisi e senza “ratio”. A volte è la reazione a fare la rivoluzione. Altre volte è la rivoluzione a diventare reazionaria. Pessimo è lo stato che controlla tutto, pessimo il libero mercato che mobilita e occupa e colonizza ogni ambito della vita pubblica e privata. Il progresso produce regressi, come correttivi alla sua astrattezza e linearità.

 

Per correggere il disordine mondiale e nazionale ci vuole l’ordine: e viceversa. I fascismi attualmente più efficienti sono quelli nati dal comunismo. I nuovi cosiddetti neofascismi, invece, navigano a vista nel disordine. Il conflitto di cui spesso si parla nel libro tra “sovranismo” nazionale (pericoloso) e “cosmopolitismo” globale (auspicabile) non costituisce in realtà un’alternativa politica e culturale credibile. In ogni nazione le maggioranze non vivono come se si trovassero dovunque nel mondo globale, vivono materialmente e quotidianamente in un ambiente caratteristico e limitato, con poche possibilità di evaderne se non impugnando un cellulare o accendendo un televisore. Eccitato dalla lettura vorace del libro, vedo che non ne sto parlando. Riassumerlo in un articolo è d’altra parte impossibile. Lo faccio perciò con un breve e soggettivo elenco tematico e problematico. Dicendo per esempio che oggi troppe cose sono fuori controllo e vanno troppo veloci. Che gli avvenimenti accadono sorvolando il potere decisionale sia degli stati nazionali che delle attuali, assenti o inadeguate, istituzioni internazionali. Che le divisioni europee, in questo senso, sono un esempio: siamo incapaci di governare unitariamente e con coerenza sia l’economia che la politica estera, cosa che avviene anche nel resto del mondo. Che bisogna dialogare, ma non c’è una cultura universale condivisa, e le diverse tradizioni sarebbe assurdo e ingiusto volerle cancellare. Che va criticato l’egoismo nazionale, ma anche il cosmopolitismo coatto che lo ha provocato. Che la democrazia è in crisi, come sempre, perché le sue procedure sono lente, richiedono ragionevolezza e pazienza conciliativa, promettono molto e mantengono molto meno. Ma d’altra parte, Trump in America, Modi in India, Erdogan in Turchia, Maduro in Venezuela, Putin in Russia, eccetera, non tollerano critiche e opposizioni all’interno e volendo o non volendo aggravano i conflitti all’esterno.

 

Le democrazie liberali presuppongono cittadini acculturati, comunicanti e ragionanti, ma l’eccesso di informazione informatica e di intrattenimenti subculturali mettono in scena una comunicazione che non comunica e una discussione che non razionalizza. La civile Europa è generosa o egoista? Non conta niente o è un esempio per il mondo? E’ ammirata o disprezzata? Forse non è un caso se un libro così ragionante e spesso un po’ perbenistico come “La Grande Regressione” viene dalla pedagogica Germania: paese stabile, ricco, ordinato, volenteroso, senza la cui capacità di mediazione nel prossimo futuro anche l’Europa andrebbe in pezzi. Non lo dico io, lo pensano in molti.

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