L'arte di essere figli

Nicola Imberti

Al Meeting di Rimini una mostra (con Warhol e Antonioni) spiega che non ci sarebbero gli artisti contemporanei senza dialogo con i “padri” del passato

Quando Gian Lorenzo Bernini decise di dare forma alle parole di Virgilio il poeta era già morto da secoli. E non sapeva che la sua ultima opera, incompiuta, era stata divulgata nonostante (così si narra) la sua contrarietà. Chissà come avrebbe reagito trovandosi di fronte all’opera dello scultore che, attingendo dal racconto dell’Eneide, aveva deciso di rappresentare la fuga da Troia di Enea, insieme al padre Anchise e al figlio Ascanio.

 

Bernini usò molto della sua creatività per costruire la scena posizionando i tre personaggi in verticale. Anchise, il vecchio, sulle spalle del più giovane e muscoloso Enea, che dietro di sé ha il figlioletto Ascanio. Una rappresentazione del rapporto padre-figlio. Ma anche tre generazioni che nel loro aspetto fisico, nei gesti, nello sguardo, impersonano il passato, il presente e il futuro. Metafora della storia. E dell’arte.

 

Dopotutto chi è l’artista se non colui che è in grado di prendere l’eredità del passato e attualizzarla con uno sguardo rivolto al futuro? Bernini parlava al suo tempo, ma parlava anche e soprattutto a chi sarebbe arrivato dopo di lui. E fondava tutto questo, in maniera solida e inequivocabile, sul lavoro di chi lo aveva preceduto. Un percorso creativo che, quando si parla di arte “classica”, nessuno sembra mettere in discussione.

 

Diverso è quando si parla di arte contemporanea. Qui gli artisti sono spesso descritti come degli iconoclasti concentrati a distruggere ciò che è già stato piuttosto che costruire partendo da esso. E’ anche da questa considerazione che è nata “Il passaggio di Enea. Artisti di oggi a tu per tu con il passato”, la grande mostra di arte contemporanea che Casa Testori ha realizzato in occasione dell’edizione 2017 del Meeting di Rimini (iniziata domenica, si chiuderà sabato 26 agosto). Una mostra che, partendo dal titolo della manifestazione (“Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”, citazione dal Faust di Goethe), ha raccolto le opere di alcuni artisti contemporanei alle prese con l’eredità del passato. La scelta di Enea come personaggio simbolo non è casuale. Ed è il frutto dell’incontro con Giorgio Caproni (ancora una volta il dialogo presente-passato che torna) che intitolò una delle sue raccolte di poesie proprio “Il passaggio di Enea”. Per il poeta Enea, non quello di Bernini ma quello rappresentato da Francesco Baratta nella scultura che si trova in piazza Bandiera a Genova, rappresenta “la condizione dell’uomo contemporaneo, della mia generazione: solo nella guerra, con sulle spalle un passato che crolla da tutte le parti, che lui deve sostenere e che per la mano ha un avvenire che ancora non si regge sulle gambe”. Insomma Enea come l’artista che non teme il passato che crolla, ma da lì sa partire per alimentare la propria opera.

 

“Anche gli artisti di oggi – spiega al Foglio uno dei curatori della mostra, Luca Fiore – hanno dietro di sé un mondo ormai finito eppure, facendosi carico del tesoro del passato, si dirigono, camminando con le loro gambe, verso un futuro incerto, con l’ambizione di partecipare alla fondazione di una nuova civiltà”.

 

La mostra di quest’anno è la seconda tappa di un percorso. Già due anni fa, quasi per sfida, i curatori Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli, avevano allestito a Rimini una mostra sull’arte contemporanea. Un evento “didattico” che cercava di spiegare, a chi non riusciva ad andare oltre il solito pregiudizio, come in realtà l’arte contemporanea “si fa con tutto, è dappertutto, parla di tutto e rischia tutto”. Non a caso l’esposizione si apriva con la celebre scena di “Tre uomini e una gamba” e la battuta che un po’ tutti abbiamo considerato come espressione del sentire comune: “Il mio falegname con 30 mila lire la fa meglio. Non ha neanche le unghie”. In maniera forse un po’ inaspettata la mostra fu tra le più visitate. In tantissimi attraversarono la piazza su cui si affacciavano sette stanze dedicate ad altrettanti artisti (Marina Abramovic, Alberto Garutti, Ai Weiwei, Ron Mueck, Anish Kapoor, Damien Hirst e Jenny Saville). Alcuni riuscirono a superare i pregiudizi, altri li confermarono, tutti accettarono l’ipotesi, positiva, di un dialogo con i curatori sul senso dell’arte contemporanea. Come un’esposizione priva di opere originali abbia avuto quel successo è forse anch’esso un mistero dell’arte contemporanea, fatto sta che proprio da quell’“assenza” è iniziata una nuova sfida.

 

Un “ritorno al passato” perché non è la prima volta che opere vere vengono esposte all’interno dei padiglioni del Meeting. Nel 1983, direttamente dalla Pinacoteca di Brera, erano infatti arrivati a Rimini alcuni quadri di Francis Bacon, mentre qualche anno dopo sarebbero arrivati James Turrell e William Congdon. A distanza di trent’anni quindi, ecco una mostra di arte contemporanea.

 

Il percorso, proprio come due anni fa, è libero. Otto gli artisti coinvolti. Ai quali si aggiungono due “padri nobili”. Si va dalle monumentali fotografie di Julia Krahn che reinterpreta a suo modo l’immagine di Enea e Anchise immortalando se stessa, nuda, mentre porta la propria madre in spalle e mentre la tiene in braccio (in una scena che richiama “La Pietà” michelangiolesca), a Emilio Isgrò che cancella “I Promessi Sposi”. Dalla Madonna di Alberto Garutti – una statua classica che invece di avere la fredda temperatura della ceramica, grazie ad un dispositivo, si scalda fino ai 36,7 gradi centigradi, calore del corpo umano – alla Via Crucis realizzata da Adrian Paci per la chiesa di San Bartolomeo a Milano (foto stampate su alluminio che si ispirano al “Vangelo Secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini). Dai paesaggi psichedelici di Giovanni Frangi alla “Processione”, disegnata a matita, di Andrea Mastrovito, dove corpi nudi si mescolano a quelli vestiti, a scheletri, personaggi sacri e profani. Dalla scultura “Qui Ora” di Gianni Dessi, realizzata originariamente per il cortile del complesso di Sant’Ivo alla Sapienza che rappresenta una mano di sei metri che impugna un oggetto a metà tra una casa e una lanterna, alle foto che il regista Wim Wenders ha scattato a Ground Zero. Cinque immagini gigantesche allestite come a formare una piccola cappella in cui il dolore della morte e della distruzione viene illuminato della luce del mattino provocando un effetto di “inaccettabile” e scandalosa bellezza (può l’uomo riconoscere e fotografare la bellezza e la speranza anche se circondato dal nulla?).

 

Qui, ora, il passato e il presente si incontrano, dialogano. I linguaggi della modernità riscoprono, riconquistano, reinventano l’eredità del passato. Non si tratta di ripetere, ma di ricreare. “Nel campo dell’arte – sottolinea Fiore – è evidente, oggi forse di più, che il rapporto con il passato si fonda su una fedeltà discontinua. Andare avanti voltando le spalle a ciò che è stato. Osare un passo in più per non ripeterlo. Tradire la tradizione per esserle fedele. E tutto, a ben vedere, ruota attorno ad una domanda: come è possibile fare questo?”. Così si capisce che il legame con il padre non solo non è assente, ma è molto più profondo di quanto si possa immaginare. Magari inconsapevole, a tratti conflittuale, come solo un rapporto così umano può essere (quante volte sarà capitato anche a noi di riscoprirci a vivere un’esperienza così con i nostri padri).

 

Come ha spiegato Giuseppe Frangi, un altro dei curatori, nell’incontro di presentazione della mostra che si è svolto domenica a Rimini, si tratta di “un percorso per stazioni dove ogni stazione accende una modalità differente di rapporto con il passato, sia che si tratti di arte del passato che della dimensione umana e antropologica del passato. Tutti gli artisti che vedrete sono legati da un profondo amore per ciò che li ha preceduti, per ciò che ha permesso che loro fossero – si è artisti perché altri lo sono stati prima. Eppure ogni volta che si varca la tenda di uno degli spazi della mostra e si entra nelle singole sale, si percepisce che questo amore, per essere vero, a volte ha dovuto prendere la forma di una lacerazione. Il passato torna a vivere, ad essere vivo nel presente, se si ha il coraggio di reinventarlo, anche se per reinventarlo fosse necessario voltargli le spalle. Ma questo è ciò che fa di un uomo un artista”.

 

E ancora: “Artista è chi rende presente, suggestivo per l’oggi, ciò che per il mondo rischia spesso di essere solo un ricordo, una ripetizione. La mostra si apre con un’immagine che apparentemente non c’entra niente con il resto: una scena del viaggio di David Bowman in ‘2001 Odissea nello spazio’. L’abbiamo scelta perché dà l’idea della vastità di orizzonti che si spalanca nella mente di un’artista ogni volta che si mette all’opera. Ma abbiamo messo quell’immagine anche per dire che il percorso della mostra non ha nulla di restrospettivo, non c’è una volontà conservativa. La mostra vuole essere una proiezione in avanti. E’ uno sporgersi su quello che sarà avendo fatto tesoro di quello che è stato”.

 

Non c’è nulla di automatico o precostituito. E non è strano quindi che a introdurre gli artisti siano due maestri del Novecento scomparsi. Quasi a sottolineare che il passato non è solo quello “lontano” dell’antichità. Che per essere padri occorre essere stati prima figli (Anchise padre di Enea padre di Ascanio) in un percorso interminabile. Ecco quindi Andy Warhol e Michelangelo Antonioni di cui quest’anno ricorrono, rispettivamente, il trentennale e il decennale della morte.

Il primo, il padre della pop art, è a Rimini con “The Last Supper”, un dipinto del 1986 che fa parte dell’ultimo ciclo realizzato da Warhol poco prima di morire, nel febbraio dell’anno dopo. Si tratta di un omaggio a Leonardo e alla sua “Ultima cena”. Abituati alle provocazioni dell’artista è difficile non rimanere colpiti, in questa occasione, dal rispetto assoluto con cui il pittore si avvicina al passato. Un’attenzione che lo stesso Warhol manifestò parlando al suo amico Pierre Restany cui, dopo aver realizzato l’opera, chiese: “Pensi che gli italiani vedranno il rispetto che ho per Leonardo?”.

 

Quello di Antonioni è invece un omaggio a Michelangelo e a una delle sue sculture più famose: il Mosè realizzato per la Tomba di Giulio II a San Pietro in Vincoli. In “Lo Sguardo di Michelangelo”, suo ultimo cortometraggio e “testamento” artistico, il regista viene ripreso mentre fa il suo ingresso nella basilica romana, il corpo visibilmente segnato dall’ictus che lo aveva colpito quasi vent’anni prima, il passo strascinato. Attraverso la cinepresa lo sguardo di Antonioni osserva l’interno complesso, ne indaga i particolari. A volte sullo schermo appare il volto del regista, rapito. Ma il vero protagonista di questi 17 minuti di cinema è il silenzio. E la celebre frase di Michelangelo, “perché non parli?!”, diventa il filo rosso che lega Mosè e Antonioni. Da un lato la statua, imponente nella sua bellezza, silenziosa. Dall’altra il regista, al quale l’ictus ha ridotto la capacità di espressione, che osserva in silenzio. E solo cede a un gesto di tenerezza accarezzando il marmo. Un gesto definitivo che testimonia, senza bisogno di parole, l’amore verso il passato e i propri padri. Verso quell’opera che resta lì, immobile, nell’ultima scena del documentario, mentre Antonioni guadagna l’uscita per rimmergersi nel suo presente.

Di più su questi argomenti: