Foto di Angelo Carconi, via Ansa 

Gli scrittori del sole

"Mentre vivo concepisco la mia rovina, ne ho paura e scrivo". Sandro Veronesi si racconta

Annalena Benini

L'autore parla dei suoi demoni, il ritegno verso il dolore, la tentazione del baratro, l’immenso sforzo verso l’affidabilità. I cinque figli, l’umiliazione di Patti Smith, il cancro e la gioia di sentirsi scrittore

"L’anno scorso di questi tempi facevo radioterapia perché ho avuto un cancro e sono guarito", mi ha detto Sandro Veronesi verso la fine di questa intervista nel giardino di casa sua a Roma, l’ha detto con semplicità perché dopo un milione di parole gli ho chiesto: e quindi perché scrivi? “Dovevo fare la radioterapia al Gemelli tutti i giorni, era aprile, era maggio, e io leggevo ‘La scuola cattolica’ di Edoardo Albinati in sala d’attesa, in mezzo ad altre persone che stavano anche molto peggio di me, e mi dicevo: e io chi sono? Mi rispondevo: sono uno scrittore, in più sono anche amico dello scrittore che ha scritto questo libro meraviglioso che sto leggendo, e sono felice: tutti i giorni non vedevo l’ora di andar là ad aspettare il mio turno, e se mi facevano prima mi dispiaceva.

Quindi, perché scrivo? Perché essere uno scrittore mi fa star bene anche in una situazione così, e senza dovere rompere i coglioni a nessuno. Se anche muoio domani, io i miei libri li ho fatti. Pensavo a questa cosa qui, alla scrittura, e alla Juventus. Perché scrivo? Per movimentare il dolore che ho, perché scrivere è una cosa vitale. Io ho sempre vissuto convinto di essere a tanto così dalle persone più disgraziate che c’erano. Per me è così importante avere un’identità vera, reale che mi distanzia dai disgraziatissimi, da quelli che commettono errori enormi, di cui io mi sento fratello. La rovina l’ho sempre sentita vicina, crescendo: diventando me stesso ho capito quanto erano vicini la miseria, il degrado, l’autodistruzione”.

Sandro Veronesi, che ha vinto il Premio Strega con “Caos calmo” e ha sperimentato molte forme di scrittura e non soltanto di romanzo, che si è infilato anche dentro i Vangeli e dentro l’idea di male assoluto, racconta che, fino a quando non ha pubblicato il suo primo libro, nel 1988, “Per dove parte questo treno allegro”, a chi gli chiedeva che lavoro facesse rispondeva: l’oftalmologo. “Come il dottor Zivago. È un mestiere talmente noioso che nessuno si mette a fare domande, ma ai più curiosi diagnosticavo anche una blefarite. Mi era difficile fare lo sforzo di superbia di dire: sono uno scrittore”.

Ma era partito da Prato per questo dopo la laurea in Architettura che comunque gli ha dato, spiega, il criterio dell’uomo dentro uno spazio. “Ho lasciato la Toscana dove rischiavo di trovare lavoro e sono venuto via. Ho detto in famiglia: ho questo sogno, fatemelo tramontare, quando tramonta farò l’architetto. Ho vissuto un anno e mezzo da parassita, sono stato ospite di Vincenzo Cerami, nello studio con tutte le cose di Pasolini dentro: io venivo da Prato e dormivo lì, nel letto di Pasolini. Per imbarazzo dopo nove mesi me ne sono andato, mi sembrava troppo, mi sembrava di non meritarlo, mi sono spostato in una camera ammobiliata. Ma in quei nove mesi ho scritto il mio primo romanzo e mi sono finalmente liberato dell’umiliazione di non poter ancora dire: scrivo”.

A chi avevi così paura di dire che scrivevi? “Quando uscivo la sera, sempre parassitando perché non avevo una lira, frequentavo mio fratello Giovanni (il regista) e anche Francesco Nuti, Massimo Troisi, persone vive ed entusiasmanti, ed ero molto amico del fratello minore di Edoardo Albinati, che mi ha fatto conoscere Edoardo: e vedere Albinati così splendente che diceva: sono un poeta, e che mi offriva considerazione, mi lusingava, ma al tempo stesso avevo paura di non essere nulla”.

Edoardo Albinati ha detto lo stesso di te, ha detto che sei arrivato a Roma come “il ragazzo dorato”. “Fra me e lui c’è stato proprio un innamoramento, una fascinazione reciproca che dura ancora adesso: Albinati per me è stato forse il primo necessario incontro perché decidessi di fare lo scrittore. E quando ti innamori di una persona, quella persona non invecchia mai”. Sembra davvero che essere un provinciale, arrivare da un posto in cui le cose che succedono si guardano da lontano e si desiderano intensamente, con struggimento, abbia dato a Sandro Veronesi più entusiasmo e meno cinismo, anzi nessun cinismo, ma Prato non viene mai nominata, in nessuno dei suoi libri, nemmeno in “Brucia Troia”, che racconta una provincia: “Essere un provinciale mi ha messo nel novero di quelli che io più amavo. Amavo di più gli scrittori, gli intellettuali e i registi che arrivavano dalla provincia, mi riconoscevo perché Roma produce stupore, che poi uno lo ammetta o lo nasconda. Io venivo da Prato, una città molto diversa da come è adesso: i miei amici negli anni Ottanta quando ho cominciato a scrivere mi chiamavano Permanent Vacation, perché per loro io che scrivevo ero in vacanza, non lavoravo, non producevo denaro. A Prato c’erano due teatri, per il resto era un deserto. La mia famiglia si è arenata a Prato per ragioni di lavoro di mio padre ingegnere, non avevo radici vere là: ma ci ho cresciuto i miei figli, anche per ragioni legate al divorzio. Ci ho visto morire i miei genitori. Però nulla di tutto questo per adesso spinge per essere raccontato, io provo pudore a menzionare nei libri Prato, le vie di Prato, le piazze di Prato”.

Ecco che arriva il pudore, il ritegno di Veronesi, che mentre rivela tutto, molto altro trattiene, che nella scrittura esonda e però anche nasconde, e che è allegro e nudo nell’offrire storie e pezzi di sé a un registratore acceso, e però mostra, sempre, un tormento. “Il mio dèmone è la discontinuità, in tutto. Nell’aspetto fisico, nella scrittura, nella vita, nello sport. Giocavo una partita meravigliosa a tennis e il giorno dopo non buttavo la pallina di là, e non ci potevo fare niente: lì per lì mi infuriavo però poi ho capito che quello è un dèmone e che bisogna ringraziare di avere quelle cose dentro, i vuoti e i pieni: io sono un bravo giocatore e una schiappa, sono tutte e due le cose. Ma in fisica si studia che l’energia nasce dalla differenza, la morte termica avviene quando tutto è uguale. E sì, ho pudore e ritegno a nominare le vie di Prato, ma anche certe cose molto dolorose che ho vissuto, devo sempre trovare un modo molto metaforico per parlarne, non per una questione etica ma per un problema mio profondo, e certe volte non è un bene. Ho fatto molta fatica ad esempio a scrivere della morte di mio padre, ho dovuto carrozzarla da Apocalisse di Giovanni. Ho una ritenzione delle cose e a volte invece una specie di tracimazione. Ho accettato da tempo che così sia tutta la mia vita. Per quelli che mi vivono vicino può essere un problema, perché il rendimento cambia, l’attenzione, l’affidabilità cambiano. Ma con la volontà, ormai l’ho capito, si riesce a fare tutto”.

E la tua volontà com’è? Nella percezione delle persone sei sempre il ragazzo dorato ed eri anche Permanent Vacation, sono caratteristiche in cui la volontà non entra: “La mia volontà è di essere affidabile – dice Veronesi – quando ti ritrovi a crescere tre figlioli è indispensabile. Quando mi sono separato i miei figli avevano dieci, sette e due anni. Ora mio figlio minore torna domani dall’America, ha 18 anni: è fatta, posso dire che ce l’ho fatta, e ho altri due figli con Manuela, mia moglie. Ma per i primi due anni di separazione io mi sono ritrovato solo, i miei figli erano andati lontano con la madre, non avevo più una disciplina, stavo male perché non li vedevo e non avevo una buona ragione di amor proprio per non abbrutirmi, avevo perso qualsiasi abitudine, ma andavo a cena a casa di chi aveva bambini piccoli, tanto ne sentivo il bisogno.

Poi mi è tornato tutto addosso insieme al ritorno dei miei figli: alzarmi la mattina alle sette, preparare la colazione, portarli a scuola. Copiando Smoke, i miei studenti della Scuola Holden mi suggerirono di fare la stessa foto tutte le mattine dallo stesso punto. Per due anni con il telefonino ho fatto la stessa foto alle sette del mattino, ed era un po’ di libido per alzarmi, perché di me stesso non mi fidavo”.

Quindi pensi che sei sempre in bilico, che basta poco e puoi passare dalla parte dei disgraziati: “Io so che questa affidabilità nel fondo di me non c’è, anche adesso che ho altri due figli e il più piccolo ha quattro anni. Ma quando leggo quelle cose terribili del padre che ha dimenticato il figlio in macchina, io mi sento sempre che sono stato io, anche quando sono state le mamme. Ho il terrore, perché so che dentro di me c’è questa possibilità, se non sto abbastanza attento. Ci sono persone delle quali puoi star certo che questo non succede, gli puoi dare in mano il tuo cuore palpitante e loro te lo tengono e te lo ridanno perfettamente impacchettato, io so di non essere così. Se mi dai il cuore palpitante te lo tengo da conto, però magari esagero e rinuncio a fare tutto il resto per tenere il tuo cuore in mano. Mentre gli altri fanno la loro vita e tengono anche il cuore palpitante, sono persone affidabili”.

Sandro Veronesi parla con ossessione e cuore palpitante di questa sua attenzione all’affidabilità, di questo spavento di sé, mi racconta che per anni non ha mai fatto un weekend fuori per non lasciare i figli, che ha detto no a tutto quello che lo avrebbe portato lontano dai suoi bambini, tutti e tre maschi. “Le qualità che le persone sono più orgogliose di mostrare sono proprio quelle che non possiedono. Per essere affidabile io ho sacrificato troppo, me ne sono accorto quando non sono stato più solo. Nemmeno mia madre credeva che io sapessi crescere questi figlioli, e io dovevo dimostrarlo, e per farlo ho sottratto energie a tutto il resto. Però in quel periodo di abnegazione anche eccessiva ho scritto ‘Caos calmo’, la mattina, come Moravia, solo che lui il pomeriggio si annoiava e io avevo i figli da badare. La mattina, ho scoperto, basta e avanza. Poi la madre si è riavvicinata ed è tornata a Prato, e la nostra è diventata una separazione normale, ma per anni io non ho mai dormito fuori casa”.

Mai è veramente una cosa enorme, mai è veramente molto più che una dimostrazione di affidabilità. Sandro Veronesi ha voglia di provocare stupore in chi ascolta, però non lo fa mai elogiandosi, ha il senso di un racconto che passa attraverso l’autodenigrazione. “L’unica volta che ho fatto un’eccezione è stata per Patti Smith, ed è stata una delle umiliazioni più grosse della mia vita. Mi chiamò un mio amico e mi disse: Sandro, martedì sera ho invitato a cena Patti Smith, bisogna che tu venga a Roma. Misi a dormire i miei figli da tre amici diversi e andai, in treno. Mi portai dietro il mio romanzo ‘La forza del passato’ tradotto in inglese, pensando ecco finalmente a qualcosa serve questa traduzione di merda, e sapendo che a Patti Smith piaceva molto Pasolini, e il titolo del mio libro è un verso di Pasolini, faccio una dedica immensa su Pasolini e vado a questa cena. Eravamo in pochi, Patti Smith generosissima, ha anche cantato, io chissà come a un certo punto riesco a sedermi accanto a lei, e parlo, parlo, Pasolini Pasolini, e poi le ammollo questo libro. Quando si va via, mi accorgo che lei aveva lasciato lì il libro, sul divano. E io l’ho preso, e mi hanno anche visto che mi ri-rubavo il mio libro. Ce l’ho ancora a casa, per ricordarmi di non alzare la cresta mai. Per quella figuraccia ho lasciato i miei figli”.


Hieronymus Bosch, “San Giovanni a Patmos” (particolare), 1489 (Berlino, Gemäldegalerie)


 Sembra che ci sia qui dentro un senso di colpa costante, a volte allegro e a volte triste: “No! Non ce l’ho più, perché ho proprio pagato tutto, ho affrontato le conseguenze delle decisioni che hanno provocato sofferenza. Ma so che, senza una buona ragione, la disciplina scompare dalla mia vita. Io so che posso vivere una vita bruta, che non giova nemmeno alla scrittura: è autolesionismo ed è una forma di sofferenza. Ma il senso di colpa è una cosa arida, autocontemplativa, che non ti permette di muoverti”. E il cristianesimo, che prevede la colpa e il perdono della colpa, che cos’è per te che hai scritto sul Vangelo di Marco?

Sandro Veronesi dev’essere abituato a questa domanda, infatti risponde subito che studiando i Vangeli non ha imparato a credere in Dio, ma “a credere molto di più in chi crede”. E racconta questa fascinazione da scrittore per il Vangelo come racconto irresistibile: “La mia famiglia era una famiglia laica, non ho avuto condizionamenti famigliari, ma andavo a catechismo volentieri perché c’era una bambina che mi piaceva, una di quelle con l’occhio pigro, che ancora oggi mi commuove, ma non ho mai fatto il chierichetto, però mi piaceva che il chierichetto suonasse la campanella. A tredici anni ho deciso che smettevo, e ho sperimentato un senso di libertà e liberazione, e sono stato tanto tempo senza pensarci. Poi quando abbastanza casualmente mi sono avvicinato ai Vangeli, ho capito che la cosa che mi interessava di più era il racconto, il racconto che ti travolge e che ti convince, a cui credi. Cosa c’è di più interessante di studiare questi racconti che hanno convertito un miliardo di persone? Il martirio è niente senza il racconto del martirio. La forza del cristianesimo è come è stato raccontato Cristo.

Io non credo, non prego, ma ho capito che cos’è, ho capito anche Satana. A me manca questa esperienza estrema di Cristo dentro di me. Ma come scrittore, quale maestro dovrei prendermi se non Marco, che con il racconto doveva far credere i romani? Che doveva misurare quello a cui si poteva credere e tagliare quello a cui era impossibile credere? Quando tagli un racconto è perché quel racconto può essere bello quanto ti pare ma non ci si crede, e non sei riuscito a farlo meglio, è l’unico motivo per cui io taglio. Non certo perché è troppo lungo: quando mi dicono hai quaranta pagine di troppo, non mi importa niente: cosa dovevi fare te di tanto urgente per non leggere quaranta pagine? Leggi e non rompere i coglioni. Però se non è credibile allora bisogna togliere, perché si rischia di rovinare tutto. Gli evangelisti, che non sono intellettuali, mi hanno dato una grande inquadrata come narratore”.

 

Non è solo la forma e la forza del racconto, c’è qualcosa ancora, c’è in Sandro Veronesi un’impetuosità che va da ogni parte, che sale verso l’alto e poi torna dentro di lui, e gli parla di morte, di male inspiegabile e di nuovo di Satana, come metafora ma anche come tormento che tutti abbiamo dentro e che lui sente e dichiara, ma ecco di nuovo il ritegno a parlare direttamente del dolore, e quindi “XY”, il romanzo uscito nel 2010 in cui Veronesi mette uno squalo estinto in alta montagna. “L’intento era quello di sconvolgere: io quel libro l’ho scritto dopo avere uno dopo l’altro seppellito i miei genitori, avendo incamerato tutta questa accettazione di una cosa di cui non sai il perché. Devi accettare il cancro e nessuno ti sa dire perché. Hai una mamma che muore e nessuno sa dirti perché. Non solo non lo sai, ma con tutto quello che ci puoi mettere, la tua forza, i tuoi soldi, il tuo tempo, non c’è niente da fare. È un’esperienza banale, ma mi ha chiuso le finestre. ‘XY’ è un libro terribile, non c’è un raggio di sole fino alla fine.

Dentro questo buio la cosa più adulta, più intelligente, più profonda che puoi fare è accettare, e allora proprio perché non mi riesce raccontare quell’esperienza, ho scritto, dopo, perché finché si soffre si soffre e solo i dilettanti scrivono mentre soffrono, un libro in cui ci fosse il male inspiegabile: io mi dovevo risarcire di quell’esperienza sconvolgente di veder morire una madre fra le braccia. Ho ottenuto che l’ho accettato, e ora sono in grado di accettare tutto. Ma è stato sconvolgente e ho voluto scrivere il libro più sconvolgente possibile. Das Unheimliche, ciò che Freud dice che ti perturba nelle cose che conosci bene, stare male nel mondo tuo che è la tua patria. Io di quello volevo parlare, di questa perturbazione che tu non puoi levare dalle persone che ami. Ai miei genitori che morivano mi sono dedicato a tempo pieno, non lavoravo, arrivavano i soldi da soli da ‘Caos calmo’, la mattina mi svegliavo e avevo già guadagnato abbastanza, potevo vivere fino in fondo”. 

Ma adesso Veronesi cambia ancora, e leva il ritegno per dirmi in modo diretto della morte di sua madre, lo fa perché ci ha appena scritto sopra un racconto, lo fa per quest’ambivalenza, e per la voglia di raccontare la storia di Satana e del cappuccino, e io mi faccio travolgere dal suo racconto. “Io ho visto nascere cinque figli, e mia madre mi è morta fra le braccia. Venire al mondo è un casino, morire è: respiro respiro respiro, fine del respiro. È semplicissimo, ma è molto più emozionante, c’è una solennità in quel momento, più della vita che nasce. Sei tutto lì, non c’è altro che quel non respiro. Per me, nella mia immaginazione, quel momento era importantissimo, e ho rischiato di perderlo. Ti parlo di Satana come metafora ovviamente, ma anche davvero di Satana dentro di noi. Mia madre era sedata, mancava pochissimo, io avevo il terrore che morisse di notte, sola, e invece quella mattina alle sette nessuna telefonata era ancora arrivata. Ho preparato la colazione a mio figlio minore, l’ho portato a scuola, stavo andando a casa di mia madre e mi è venuta una grandissima voglia di cappuccino, il bar era sulla strada e incredibilmente, perché non succede mai, quella mattina c’era il parcheggio davanti al bar.

Non avevo mai desiderato tanto una cosa come quel cappuccino con doppia schiuma, ma all’ultimo momento ho girato il volante e sono andato direttamente là, dove ho trovato mio fratello con la faccia fra le mani, scosso dai singhiozzi, e mia madre che stava sparendo dentro il letto. L’ho presa fra le braccia e in un minuto è morta. Per me voleva dire molto, era il punto d’arrivo di tutta quell’esperienza, perché quella sensazione le racchiude tutte, anche i cinque bambini che ho visto venire al mondo. Ma ti rendi conto se mentre moriva mia madre io mi stavo prendendo il cappuccino con la doppia schiuma? Questo per dire che io mentre vivo concepisco anche la mia rovina, ovunque concepisco cose molto spiacevoli, e non si impara mai”.

 

Come il padre di “Caos calmo”, che durante quella ormai famosissima scena erotica, corre il rischio che sua figlia si svegli e lo veda. “Di là c’è una bambina traumatizzata che dorme, con la mamma appena morta e che si potrebbe svegliare, potrebbe vedere che cosa sta facendo suo padre sul prato, allora mi interessa raccontarlo. Non per il sesso. Ma per mostrare questo padre apparentemente protettivo, che la mattina sta seduto sulla panchina ad aspettare che sua figlia esca da scuola, a che rischio invece la espone. Poi per fortuna la bambina non si è svegliata. Ma sono stato tanti anni a chiedermi: e se si è svegliata? Quando ho scritto ‘Terre rare’, ho deciso che non si era svegliata”. Torniamo all’inizio, allora: perché scrivi?

Se fossi Samuel Beckett, se fossi il più bravo di tutti ti risponderei come lui: perché so fare solo quello. Ma nel mio caso sarebbe falso, non sono il più bravo di tutti e infatti so fare altre cose, so giocare con i bambini ad esempio, ma tutte le mattine, comunque mi svegli, ringrazio il cielo di scrivere, di essere riuscito a vincere questa mia inclinazione a star male. Sono contento che me lo lascino fare: per me scrivere è come avere le mutande a posto”.


 

Nella serie Gli scrittori del sole sono uscite finora sul Foglio le interviste a Edoardo Albinati, sabato 24 giugno, e a Valeria Parrella, sabato 1° luglio.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.