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L'Italia è l'impero del dubbio, da Pasolini a Moro fino al bandito Giuliano

Salvatore Merlo

C'è in Italia una forsennata ricerca di una verità più vera del vero, c’è sempre un mistero, che va oltre le sentenze (e la logica)

Più che la ruota della storia, o della giustizia, uno ha sempre l’impressione di veder roteare vertiginosamente la porta girevole del grand hotel. Chi uccise davvero Pasolini?, si chiedevano ieri i titoli di quasi tutti i giornali d’Italia, nel giorno della morte di Pino Pelosi, il reo confesso, l’uomo condannato in via definitiva, in tre gradi di giudizio, per aver assassinato Pasolini, all’Idroscalo di Ostia, in una squallida notte di novembre del 1975. Quali segreti, quali trame, quali complicità, ha portato con sé Pelosi nella tomba, come sono andate davvero le cose? Umberto Eco scriveva, con tono d’ironica e didattica pazienza, che il gusto per le verità occulte, per il mistero, “nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle”. Si pensi alla teoria del Grande Vecchio dopo il rapimento Moro: com’è possibile che dei trentenni avessero concepito un’azione cosi perfetta? “Ci deve essere dietro un Cervello più avveduto”, si diceva allora (e si continua a dire ancora oggi: la Cia? il Kgb? Andreotti?). E chi sono i veri mandanti delle stragi di mafia? E il delitto dell’Olgiata? E il mostro di Firenze? Per conto di chi agiva Pietro Pacciani? E giù con inchieste, processi che si riaprono, cadaveri che si riesumano, articoli, libri, film, monologhi teatrali, sforzi di creatività che danno alla gente un brivido d’eccitazione e d’orgoglio. Ma il mistero è tanto più potente e seducente in quanto è vuoto, diceva Eco.

 

Di questo vasto, stupefacente fotoromanzo da alcuni chiamato “verità”, di questa forsennata ricerca di una verità più vera del vero, che sempre sottende fatti che si dimostrano per logica euclidea, la nostra puntata prediletta, l’invenzione a noi più cara e che riteniamo vicina alla grande tradizione comica italiana, da Totò a Fantozzi, è quella che alcuni anni fa, per iniziativa del noto ex pm Ingroia, prevedeva la necessità di disseppellire il povero bandito Giuliano per far finalmente luce sui misteri di Portella della Ginestra (1947). Si doveva scoprire se le ossa fossero le sue. Venne tirato fuori. E guarda un po’, era lui.
E certo questo è un paese che ha conosciuto stragi, instabilità, depistaggi, strategie della tensione e processi lunghi, tormentati, con ribaltamenti sorprendenti e stordenti, storie che possono aver indotto gli italiani a coltivare sempre la riserva del sospetto come anticamera della verità. Eppure applicare la logica del dubbio a ogni storia e a ogni benedetta vicenda giudiziaria, politica e cronachistica, deforma il senso critico in paranoia, in quell’ideologia del complotto che è notoriamente una delle più sublimi e pericolose forme d’imbecillità che si conoscano dalla notte dei tempi – dal Protocollo dei savi di Sion a Paola Taverna (“C’è un complotto per farci vincere a Roma”) – quell’“impero del dubbio” descritto dal sociologo francese Gérald Bronner, secondo cui “un dubbio che pretendesse di esistere per se stesso, e senza nessuna limitazione, può facilmente diventare una forma di nichilismo mentale”.

Il processo sulla cosiddetta trattativa tra lo stato e la mafia, per esempio, è stato smontato dai giudici, eppure ci sono scrittori, giornalisti e magistrati che ancora oggi descrivono meccanismi, complicità, retroscena, passano al Luminol ogni fatto apparentemente chiaro della storia patria e della cronaca, partendo – diciamo – dalle origini massoniche dell’unità d’Italia per arrivare ai veri mandanti delle stragi. E tutte queste verità, queste “oltre verità”, alla fine, rendono ogni fatto ancora meglio smentibile, revocabile, suscitano altri ingarbugliamenti, più fiere sospettosità, confusione ulteriore, vaste nubi di nuovo gas.

 

Nella smania di tutto voler finalmente rivelare e disvelare, nella spirale dei misteri, in questa matrioska dell’occulto, i fatti si confondono, si deformano, possono diventare grotteschi, e allora: proprio sicuri che De Gasperi fosse un patriota, e non un agente al soldo degli americani? Vittorio Emanuele II era il figlio del re Carlo Alberto, o dello stalliere di Venaria? E Bruno Vespa è il figlio segreto di Mussolini? Quali segreti s’è portato nella tomba Pino Pelosi? Prende piede a poco a poco una sorta di allucinazione collettiva, imparentata con arcani meccanismi un tempo attivati dalla superstizione, dalla magia, dalla religione, nonché dall’omino di burro che conduce Pinocchio nel paese dei balocchi: “Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di fieno”. E naturalmente, mangiando il fieno, Pinocchio alla fine si era trasformato in un ciuchino.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.