Lo Strega e gli scrittori traditori
Man mano che la letteratura perde rilevanza sociale cresce il suo misero bisogno di essere riconosciuta subito come tale. Non si salvano neppure i finalisti del premio letterario
In chiusura di un articolo sul Premio Strega uscito nel Sole 24 Ore del 25 giugno, e scritto al solito con prudente intelligenza, Gianluigi Simonetti lascia cadere un’osservazione micidiale. Parla delle “Otto montagne” di Paolo Cognetti, edito da Einaudi, come di un “prodotto da esportazione (…) legato del resto a modelli importati”, s’intende nordamericani. L’osservazione è esatta, e riguarda anche gli altri libri dell’autore. Che la declinazione dei modelli sia più o meno scrupolosa ha un’importanza relativa: a volte, anzi, è proprio quando la pratica artigianale limita al mimino le sbavature che l’apriori estrinseco risulta più evidente e invadente, troppo forte perché possa far filtrare le verità spregiudicate (e impregiudicate) al cui servizio dovrebbe mettersi la letteratura. L’autore che più ostenta il ritiro in un “silenzio verde” lontano dalla società tecnologica e chiacchierona, ci offre quindi uno dei prodotti narrativi più scolasticamente prefabbricati, socializzati, virali. Siamo di fronte a una retorica dell’antiretorica, e all’inconsapevole estetismo di chi potrebbe riassumere la propria poetica in uno scandito “un giorno m’imbarcai su un cargo battente bandiera hemingwayana”, e/o carveriana. Il cargo sembra ormai parecchio affollato: la giovane Francesca Manfredi, ad esempio, ha appena vinto il Campiello Opera Prima con i racconti di “Un buon posto dove stare”, e a quanto pare nessun consigliere le ha suggerito che nell’orgia editoriale di “piccole buone cose” e “caffè illuminati bene”, scegliere quel titolo non è un segno di sobrietà, ma è un po’ come chiamare una plaquette di poesie “In un supremo anelito”.
Il Cognetti "da esportazione" ci offre uno dei prodotti narrativi più scolasticamente prefabbricati, socializzati, virali
Ho citato due libri di narrativa. Ne aggiungo uno di saggi, nel senso più largo del termine. Seppure in una cerchia prevedibilmente più ristretta, nell’ultima stagione si è lodato con una certa enfasi anche “Lettori selvaggi” (Giunti) di Giuseppe Montesano. Del resto, enfatico si dimostra lo stesso autore, per tacere del risvolto dove si evocano addirittura l’“opera-mondo”, gli immancabili “carne” e “sangue”, e siccome i salmi così concepiti finiscono sempre in gloriose apocalissi, pure “l’incendio della vita”. Siamo davanti a una scorribanda di 1.800 pagine nelle arti e nel pensiero di tutti i generi, i tempi e i luoghi: si va dalla “Preistoria” a Eisner, da Tiziano a Debord, dalla Bhagavadgītā a Satie, da Perrault a Charlie Parker, da Francesco Redi a Bukowski… Il “lettore selvaggio” monta ritratti più rifiniti accanto a “corsivi” introdotti da un “…e” che vorrebbe dare l’idea della chiacchierata ininterrotta, a ruota libera, in cui si prende appena fiato nella breve dissolvenza dei puntini. Non nego l’utilità e l’intelligenza di tanti appunti: Montesano è un intellettuale coltissimo, non uno sprovveduto. Il problema, però, è che corre decisamente con troppi pesi alle caviglie. Ostenta un tono antispecialistico; ma come i gaddiani tengono costantemente sott’occhio le parole corrive alle quali fanno lo sgambetto con qualche preziosismo, senza perciò riuscire a liberarsi della loro ombra, così la sua scrittura, qua e là felice, più spesso grevemente vitalistica e farraginosa, conserva alle fondamenta i mattoni nozionistici di una enciclopedia per le scuole. Se adesso tiro in ballo la parola “critica”, so già che qualcuno sarà tentato di rispondere che no, che la prendo dal verso sbagliato, perché questo volume è “di più e di meno”. Ma chi risponde con questi esorcismi avvocateschi dà alla parola un significato sindacal-accademico che non è affatto il suo. In ogni caso, mettiamola così: “Lettori selvaggi”, come ogni vero libro di critica, è il libro di uno scrittore che discute di arte, e quindi di altri scrittori, di libri, di opere figurative e musicali, ecc. Ora, qualunque oggetto intenda descrivere, uno scrittore dovrebbe riuscire a mostrarcelo come se ci apparisse davanti per la prima volta, ossia ripulito dagli stereotipi. Vale anche per i testi, per gli organismi estetici, insomma per “l’arte sull’arte”: in termini critici, lo ha detto bene Alessio Martini a proposito di Luigi Baldacci, si tratta di fare il “vuoto anagrafico” intorno alle opere e agli autori, cioè di mostrarne il valore e la singolarità irriducibile astraendo il più possibile dall’auctoritas accumulata intorno a loro nel tempo, dagli ipse dixit, dalle mitizzazioni e dalle mistificazioni. In Montesano, invece, avviene il contrario: di ogni opera, di ogni autore si dà subito per scontato che sia un mito, ma non vengono quasi mai a galla le ragioni di questa statura sovrumana. Lo scrittore è sicuro, troppo sicuro fin dall’inizio: somiglia a uno studente a cui abbiano appena illustrato il contesto storico e la storica importanza di un poeta o un pittore, di un jazzista o di un santo. Lo studente tende giocoforza a leggere, ascoltare, guardare ciò che gli autori ci hanno lasciato in eredità con un entusiasmo aprioristico: percepisce soprattutto se stesso, la propria esaltazione, e poco i testi. Nel caso che qualche maligno lo mettesse di fronte a un apocrifo dei suoi miti abbozzato un attimo prima, chissà se si accorgerebbe della differenza. Così tutto finisce per somigliare a tutto: ogni personaggio di queste divagazioni è un tipo incredibile che “non ti dà scampo una volta che lo hai visto”, le realizzazioni sono ovunque “immense e danzanti”, ed è inutile chiedersi se “c’è qualcuno che non abbia seguito col fiato sospeso” le performance artistiche di simili monumenti. Dappertutto ritroviamo “l’inferno e l’eden”, gli “sconquassi psichici”, le “solitarie passioni del ritmo”, la inevitabile coppia “vittima e carnefice”, e ovviamente, come in ogni antologia scolastica, non c’è Grande che non “seppe vedere” in anticipo le epoche future. Negli incontenibili “lampi di eccitazione” di Montesano, perfino il Mereghetti diventa “metamorfico”, e Calasso è magnificato nel suo “sinuoso artiglio erotico che scioglie i nessi tuffandoli giù in fondo all’ignoto gorgogliante”. In sintesi: un editing massiccio avrebbe molto aiutato il “lettore” a diminuire il peso fisico del volume e ad aumentarne il peso critico.
Tre esempi recenti che svelano il desiderio, per chi scrive oggi, di mettersi al sicuro di un gusto codificato tra la gente di gusto
Perché ho messo insieme questi tre esempi? Perché mi sembrano sintomi non irrilevanti di un bisogno che si diffonde sempre più mano a mano che la letteratura perde rilevanza sociale e diventa un’esperienza meno decisiva nella vita di ognuno: il bisogno, intendo, di riconoscerla subito, appunto a priori; di avvertire immediatamente, ad apertura di libro, una precisa aura d’essai, e di schivare incontri potenzialmente imbarazzanti con oggetti non ancora identificati, quindi difficilmente spendibili in chiave sociale come blasoni e segni d’intesa. Una volta si sarebbe detto che soddisfare questo bisogno di mettersi al sicuro di un gusto codificato tra gente di gusto porta dritti al filisteismo. Evitiamo pure questa antipatica parola. Mi limito a osservare che così si rischia di sostituire lo stile, cioè un modo di guardare il mondo conquistato affrontando gli ostacoli senza rete, e quindi senza nascondere la fragilità, con la stilizzazione, che è l’enfatica sclerotizzazione di un elemento già dato, di un déjàlu, e una maniera apparente di vincere senza combattere. Dove la letteratura si lascia classificare subito come tale, dove si dimostra troppo coerente e omogenea – non importa se in forme anoressiche o bulimiche – proprio lì di solito tende a tradire sé stessa, le sue possibilità più alte e necessarie.
Scrittori del novecento