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Il progresso umano sarà sempre meno umano per restare progresso

Alfonso Berardinelli

Che aspetto potrà avere l’inarrestabile superamento di ogni limite? C’è un limite? Chi lo ha stabilito? Riflettere su ciò che siamo rileggendo Enzensberger (Einaudi)

Credere o non credere nel progresso? Il problema non è la fede, è il progresso. Quando l’abbiamo inventato? A proposito di che cosa? Progresso materiale, o morale, o sociale? Sappiamo più o meno quando noi, esemplari dell’homo sapiens sapiens, abbiamo cominciato a progredire: fin dall’inizio, si direbbe. Il dèmone o l’angelo del miglioramento, dell’autoperfezionamento, della lotta per difendersi dalla Natura e per controllarla, abitò in noi dal momento in cui facemmo la nostra comparsa sul pianeta Terra. Ma se è chiaro l’inizio, non sono chiari il fine e la fine, l’esito, la meta, il punto e momento in cui oltre non si potrà andare. O andremo anche oltre? Che aspetto potrà avere l’inarrestabile superamento di ogni limite? C’è un limite? Chi lo ha stabilito?

 

Einaudi ristampa oggi con testo a fronte uno dei due più famosi e audaci poemi che Hans Magnus Enzensberger, da decenni il maggiore poeta e saggista tedesco, pubblicò negli anni Settanta del secolo scorso, “Mausoleum. Trentasette ballate sulla storia del progresso”. Il secondo di questi poemi, uscito pochi anni più tardi e ancora più noto, è “La fine del Titanic”. Erano gli anni in cui l’ottimismo libertario e rivoluzionario (nonché progressivo) esploso dopo il 1960 cominciava a declinare. Anni in cui l’occidente faceva i conti con se stesso: con il proprio colonialismo e imperialismo; con gli armamenti nucleari e “l’equilibrio del terrore” fra Usa e Urss; con i regimi rivoluzionari del Terzo Mondo e la loro involuzione; con la crisi dell’antropologia morale, filosofica, politica dell’uomo bianco; con l’illuminismo che può sempre rovesciarsi in nuovo oscurantismo; e infine con la scienza che nel suo progresso annuncia simultaneamente libertà dal bisogno e incombenti catastrofi. Erano gli anni in cui Elsa Morante scrisse “Il mondo salvato dai ragazzini” e “La Storia”, in cui Pasolini pubblicava gli articoli raccolti poi in “Scritti corsari” e “Lettere luterane”. Gli anni in cui vedevamo film come “Il dottor Stranamore”, “2001 Odissea nello spazio” e “Arancia meccanica”.

 

Il contributo di Enzensberger a questa generale autoanalisi critica della storia e della cultura occidentale si concentrò nei due poemi sopra citati, tra le non molte opere che hanno “fatto epoca” nella poesia europea della seconda metà del Novecento. Enzensberger apparteneva alla famiglia dei poeti-filosofi, dei pamphlettisti e critici sociali che da Leopardi a Baudelaire fino a Valéry, Eliot, Brecht hanno caratterizzato l’epoca gloriosa della poesia moderna. Questa vicenda, che Enzensberger riteneva sia conclusa che degna di essere ripresa e riformulata, suggeriva la necessità, ormai, di un rovesciamento del lirismo in forme nuove di tipo epico, allegorico e critico. Rovesciamento già ampiamente esplorato e praticato da un poeta come Auden. “Mausoleum” è in effetti un poema saggistico. L’allusione del sottotitolo alle ballate romantiche è un suggerimento che non riguarda la forma metrica, qui assente o quasi, ma piuttosto il contenuto. Le trentasette ballate sono in realtà altrettante sintesi critico-biografico, i ritratti di una serie di protagonisti nella storia del progresso: inventori e ingegneri, scienziati, medici, uomini politici, pensatori utopisti, architetti. Una galleria di individui geniali, stravaganti, maniacali, spesso abitati da impulsi sistematicamente distruttivi e autodistruttivi. Una ritrattistica inquietante, a volte tragicomica, o raccapricciante, o patetica.

 

Come è nel suo costume e metodo, Enzensberger per capire di che materia sono fatte le idee, sceglie di guardare al carattere e alla vita di coloro che le hanno concepite. Che effetto hanno avuto certe idee su coloro che ne sono stati abitati ogni giorno della loro vita? Gutenberg, per esempio, vive fra “anatemi, roghi, / guerre dei cent’anni”. Ma anche “progressi / nelle miniere e nei mulini, nella metallurgia / e nelle armi. Non la Madonna / del roseto, bensì la gru e la ruota dentata”. E’ in mezzo a tutto questo che lui concepisce “l’arte dello scrivere artificiale: qualcosa di metallico”, un sapore di piombo che dal Quattrocento è arrivato al Novecento. Con Machiavelli è piuttosto duro Enzensberger: gli rimprovera aridità e grettezza, il “gusto da parvenu”, le “lacrime di autocommiserazione”, l’essere stato il ghostwriter di uno spregiudicato assassino politico come Cesare Borgia, e infine l’aver previsto anticipato i suoi lettori futuri: Napoleone, Franco, Stalin e tutti noi che gli siamo riconoscenti per le sue “frasi lapidarie”, le sue maledette “veritiere menzogne”, la sua nuova scienza, la scienza politica.

 

Jacques de Vaucanson inventò a metà Settecento un’anatra meccanica che entusiasmò Diderot, all’origine di tante altre macchine complesse animate da un numero sempre maggiore di nessi meccanici interni. Poi Lazzaro Spallanzani che nello stesso secolo studia la digestione nei cadaveri “strappando a un gatto dopo il pasto lo stomaco”. Poi Bakunin che gridava di bramare una cosa sola, il “sentimento di indignazione” e per questo fu perseguitato, incarcerato, girovagò per l’Europa reso felice solo dal “frastuono della sommossa”. Fino ad Alan M. Turing, inventore di un “automa universale” capace di “simulare qualsiasi altro automa”. Che uomo era Turing? Sembra certo che “non lesse mai un giornale” e “i suoi guanti di lana se li lavorava a maglia da sé” e una volta “forse per sbaglio si avvelenò con il cianuro di potassio” e “disgustato dai mezzi di trasporto percorreva miglia a piedi”. La macchina di Turing, mitica invenzione novecentesca, dà origine negli anni Trenta a tutti i calcolatori futuri, computer e dispositivi elettronici. Oggi tra funzioni automatiche di calcolo e mente umana è in corso una competizione il cui esito è già previsto: l’homo sapiens è meno veloce e meno efficiente delle macchine che sa concepire, produrre e immettere nel mercato. L’uomo non solo è antiquato, è una fastidiosa fonte di errori, di lentezze e sofferenze indesiderate.

 

Il progresso umano, dunque, per essere progresso cercherà di essere sempre meno umano. Ma questo non lo dice Enzensberger. Non critica un’idea, si limita a constatare che forse troppo spesso quella che chiamiamo genialità responsabile del progresso aveva in sé qualcosa di moralmente ridicolo o sinistro. E’ vietato riflettere su questo?

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