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Lo sciopero delle donne e quello strano, inconscio desiderio di patriarcato

Simonetta Sciandivasci

“Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi”. Che cosa hanno in comune Emma Watson e Susanna Camusso?

Roma. Al terzo degli “otto punti per l’otto marzo”, stilati da “Non una di meno”, la rete italiana del movimento femminista che ha indetto lo sciopero globale delle donne di oggi, si legge: “Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi”. Poiché è in nome del femminismo che giornaliste del Guardian, attiviste e leonesse da tastiera hanno aggredito Emma Watson dopo essersi fatta fotografare un quarto di tetta da Vanity Fair, è legittimo temere che quel “decidiamo noi” si ispiri a un principio non del tutto liberale e men che meno libertario.

Emma Watson, attrice e ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite per la parità delle donne nel mondo, fondatrice di un bookclub femminista online di grande successo, è stata dichiarata indegna, estranea al femminismo (le hanno rigurgitato contro solo le donne: l’ultimo maschio occidentale indignatosi per un décolleté è stato, forse, Oscar Luigi Scalfaro). Non sono pervenute reazioni globali di condanna contro questo indice, segno che per le donne in marcia la cosa non è una contraddizione o, se lo è, non rappresenta un peso. Magari perché esiste la convinzione che potrà essere sanata dal punto sette: “Vogliamo fare spazio ai femminismi nei movimenti e costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti”.

 

In questo senso, la scelta della matriosca, non proprio un simbolo della difference, come logo della rete “Non una di meno”, appare quantomeno bizzarra (almeno quanto lo è stato indossare un cappellino rosa – di quel rosa diseducativo e sessista – a forma di vagina per dire a Trump che non gli sarebbe stato consentito di riportare il mondo al 1950). Tuttavia, stavolta, il simbolico non c’entra: “Apprendiamo con stupore che Susanna Camusso giudica le nostre richieste come qualcosa che si muove esclusivamente sul piano simbolico”, si legge nella nota delle ragazze di “Non una di meno”, in risposta alla decisione della Cgil (stessa linea della Fiom) di non indire per oggi lo sciopero generale, trattandosi di un’agitazione difficilmente connotabile da un punto di vista politico. “Questo sciopero è, invece, maledettamente concreto”, scrivono le militanti. E’, infatti, soprattutto contro il gender gap salariale, la violenza maschile e l’accesso parziale all’aborto che le donne scendono in piazza, rifiutandosi di andare a lavorare, fare shopping, fare sesso. E però resta poco chiaro perché scioperare sia una forma di lotta concreta (e non simbolica, come giustamente obiettato da Fiom e Cgil) alla violenza contro le donne. “Molla tutto, non lavorare, basta con la violenza maschile” (ne dobbiamo dedurre che tutti i maschi sono violenti per tendenza o per cultura?) recita uno dei teaser della giornata di oggi (con dentro, grazie a un montaggio furbissimo, le tate che cantano gli inni delle suffragette in “Mary Poppins”; Natalie Portman che fa il bucato in “Leon”; Renée Zellweger che risponde al telefono in “Bridget Jones”).

 

A nessuna deve essere venuto in mente “Mollate tutto, facciamola finita col femminismo”, il libricino nel quale Annie Le Brun, già nel 1970, allertava: “La negazione dell’individualità maschile e l’esaltazione della massa femminile partecipa al più alto grado di una violenza normalizzante che non è né maschile, né femminile”. Per lei, già allora, il femminismo si stava facendo assorbire dalla cultura dominante. E’ paradossale, ma le istanze con cui le donne riempiono oggi le strade sembrano una richiesta di adesione al patriarcato. “Se le donne ai posti di comando possono comportarsi come gli uomini, questa non è una sconfitta del patriarcato, ma solo un patriarcato con dentro le donne”, ha detto ieri a Vox Jessa Crispin, autrice di  “Why I am not a Feminist”.