L'odio per Israele rende ciechi (e poveri)

Redazione

Cosa insegna il caso della ricercatrice di Torino che boicotta Tel Aviv

"Le università israeliane sono espressione delle politiche di oppressione del governo e io non ci collaboro". La storia di Ilaria Bertazzi, dottoranda in Economia, tiene banco da due giorni sulle cronache dell’Università di Torino. Bertazzi ha, infatti, rifiutato un contratto di ricerca legato a Horizon2020, un progetto di studi dell’Unione europea sulle energie rinnovabili e sulle case “intelligenti” e che ha come partner l’ateneo di Torino e quello di Tel Aviv. Quando ha scoperto che Israele era tra i partner, Bertazzi ha preferito rinunciare. Un anno fa il Foglio aveva scritto più volte che il boicottaggio di Israele aveva infiltrato anche le università italiane, quando venne promosso un appello con trecento firme per isolare i colleghi israeliani. Il caso Bertazzi dimostra che quel movimento ha pesanti conseguenze pratiche.

 

La più pesante, in questo caso, è per la ricercatrice che rinuncia a fondi preziosi pur di inseguire questa ideologia pestifera che si chiama antisionismo, spesso una maschera dell’antisemitismo. Ma anche Israele nel lungo periodo ne viene toccato profondamente. La Dan David Foundation ogni anno assegna un premio di un milione di dollari. L’anno scorso lo aveva vinto la studiosa inglese Catherine Hall, docente di Storia allo University College London. Catherine Hall ha rifiutato il premio, assieme a 300 mila dollari, perché è denaro israeliano e lei aderisce al movimento di boicottaggio dello stato ebraico. L’odio per Israele è una ossessione che rischia di deturpare il volto dell’università israeliana e che sta già corrodendo quello dei nostri atenei.

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