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Contro il populismo editoriale  

Redazione

Appello di scrittori, poeti, ricercatori e docenti fiorentini, alla vigilia dell'apertura del “primo salone del libro” di Firenze. Più cultura e meno show

Dal 17 al 19 Febbraio a Firenze avrà luogo “Firenze Libro Aperto”, iniziativa che si propone come “il primo salone del libro di Firenze”. Sono emersi però alcuni aspetti poco chiari nella gestione e nella promozione dell’evento. La rete “Firenze delle Letterature”, che si era costituita nel 2012 per chiedere maggiore attenzione sulle iniziative patrocinate dalle istituzioni e sugli eventi culturali organizzati in città, propone una sua riflessione.

 


 

Nel 2012, in seguito alla vicenda del cosiddetto “Festival dell’Inedito”, un gruppo di scrittori, poeti, ricercatori e docenti del territorio fiorentino si rivolse alle istituzioni e agli operatori culturali cittadini, in particolar modo a quelli legati alla produzione letteraria, attraverso un documento pubblico che proponeva alcuni valori guida per la definizione delle politiche culturali della città:

Cultura come bene comune
Permanenza
Sostenibilità
Trasparenza
Partecipazione
Ricerca della qualità
Innovazione
Tutela e promozione del lavoro culturale

 

La recente organizzazione di un festival letterario - “Firenze Libro Aperto” - negli spazi della Fortezza da Basso, con patrocinio del Comune di Firenze e della Regione Toscana, ci impone di rinnovare quella discussione.

 

L’editoria italiana vive un contesto di crisi, caratterizzato da un eccesso di offerta e una sempre minore domanda di libri. Ciò si inserisce in un quadro ancor più drammatico di riduzione - se non di quasi scomparsa in certe zone del Paese - dei consumi culturali. A questo desolante panorama si sovrappone un fenomeno che ha ormai raggiunto una dimensione preoccupante: la sostituzione dei tradizionali mediatori culturali con soggetti poco trasparenti, che di fatto provano a occupare, attraverso pratiche ai limiti della (e talvolta oltre la) legalità, uno spazio di mercato. È questo il caso dei cosiddetti “editori a pagamento” (EAP), che si nutrono dell’inesperienza e delle aspirazioni degli scrittori per generare un profitto. Essi tentano in ogni modo di legittimare la propria attività articolando retoriche pseudo-democratiche e ipotesi complottiste che vedono nella “Editoria Istituzionale” il grande nemico di legioni di scrittori incompresi. 

 

A questi discorsi e pratiche la città di Firenze si era dimostrata già pochi anni fa particolarmente penetrabile: le istituzioni cittadine si sono spesso dimostrate pronte a concedere patrocini e solerti nell’assecondare qualunque proposta, evitando di fare valutazioni di merito e di opportunità. Anni fa l’occasione di inciampo fu il fraudolento Festival dell’Inedito, la cui realizzazione fu scongiurata grazie all’impegno di un cospicuo numero di scrittori, ricercatori e docenti fiorentini (sostenuti a stretto giro da diversi intellettuali di caratura nazionale) che, riuniti nel gruppo di Firenze delle Letterature, denunciarono con efficacia la gravità di una simile impresa. Ma gli anticorpi che qualcuno sperava potessero formarsi in quella occasione non sono sopravvissuti fino a oggi, e nuovamente le istituzioni cittadine e regionali hanno concesso il patrocinio all’organizzazione di un festival (o più precisamente una fiera) editoriale che solleva numerose perplessità.

 

In primo luogo, colpisce l’assenza di tutte le più grandi e note case editrici italiane (con l’eccezione di Giunti), e di tutti gli editori medi o di ricerca. E se va senz’altro rilevata la presenza di alcuni piccoli editori indipendenti, bisogna tuttavia ricordare che l’organizzazione del festival aveva lasciato intendere che si trattasse di un altro tipo di manifestazione, comunicando inizialmente l’adesione sia dei maggiori editori italiani (risultati poi assenti) che di altri di indubbio valore culturale e di ricerca che hanno poi smentito pubblicamente. Non ultimo spicca, sempre considerando gli espositori, la presenza di un cospicuo numero (circa il 10% di tutti i presenti) di editori a pagamento. Certo, questi ultimi sono presenti anche presso altri eventi simili in altre città italiane, ma il loro proliferare e, ancor di più, l’organizzazione di eventi che li presentano programmaticamente sullo stesso piano degli editori che svolgono appieno il loro lavoro di selezione e proposta culturale, è da considerarsi uno strisciante tentativo di mistificazione, tanto più inaccettabile in un’epoca in cui il ruolo dei mediatori, dei professionisti e più in generale il riconoscimento delle competenze e delle professionalità è fortemente in crisi.

 

È utile a tal riguardo ricordare qual è il lavoro dell’editore: questi sceglie i titoli da pubblicare tenendo in giusta considerazione sia il rendimento economico che la rilevanza culturale; li traduce se provengono dall’estero; ne cura l’edizione - fa cioè un lavoro di editing, corregge le bozze, pensa alla copertina e alla confezione del volume; ne cura la promozione e fa in modo che il testo sia distribuito. Il mestiere dell’editore si costituisce insomma di una serie articolata di competenze che innescano il lavoro di diverse professionalità (redattori, editor, impaginatori, grafici, traduttori, promotori, distributori e librai), dando possibilità di vivere e lavorare a tutto un comparto culturale.

Un editore a pagamento non fa niente di tutto questo: non seleziona i libri che pubblica (vanno tutti bene, basta che paghino), non ha interesse a migliorarli (il guadagno gli arriva direttamente dall’autore), non ne cura l’edizione in maniera professionale, e infine non li mette neppure sul mercato: tra le mani di distributori, promotori e librai non passeranno mai quei volumi, che non alimenteranno il loro giro d’affari. Gli autori però sono felici perché la scheda dei dati bibliografici della loro opera è presente sulle librerie online e per questo solo motivo pensano che il loro libro si venda da solo.

 

A questo genere di editoria si rivolgono gli autori meno esperti, che non riescono a convincere della qualità dei propri lavori gli editori tradizionali e trovano dunque rifugio in un ambiente dove la qualità dell’opera non è più parte della valutazione editoriale e tutto ha diritto di cittadinanza tra le opere stampate, in barba a qualunque considerazione di sostenibilità economica e di rilevanza culturale, oltre che a danno della propria opera, che in questo modo ne risulta ulteriormente svilita.

 

L’editoria a pagamento seduce con un inganno (“tutti gli editori ormai sono a pagamento”, “gli altri non ti pubblicano perché non sei un amico di”) e mente con una falsa promessa: quella che sarà il pubblico a decretare la fortuna dell’opera. Peccato che questo sia falso: pubblicare un libro significa, etimologicamente, renderlo pubblico, ovvero metterlo a disposizione dei lettori, portandolo in libreria e promuovendolo. Questo è esattamente ciò che non fa un editore a pagamento. Se dunque un sedicente editore non ottempera alle sue due funzioni principali - selezione del testo e assunzione del rischio imprenditoriale, che è per definizione competenza e responsabilità dell'editore, e che fra l’altro la legge italiana sul diritto d’autore gli attribuisce esplicitamente - allora ne consegue che il nome stesso di editore non gli spetta.

 

Solo una visione ingenuamente populista e falsamente democratizzante può ritenere che che quel complesso insieme di professionalità che definisce un editore possa essere sostituito da facili quanto false promesse di semplificazione, che sfruttano spesso la buona fede e l’inesperienza degli autori alle prime armi.

 

Per questo troviamo discutibile la proposta di un festival come Firenze Libro Aperto, che si pone come obiettivo programmatico quello di mettere tutti sullo stesso piano, eliminando filtri, mediatori e competenze, suggerendo che in campo letterario tutto ha diritto di rientrare nel medesimo calderone. Respingiamo con forza questa visione.

 

Firenze delle Letterature non può accettare che simili ragionamenti, affermazioni ambigue, pratiche che si situano in una zona grigia fatta di furbizia e incompetenza, restituiscano al già esiguo pubblico di lettori italiani un’immagine così superficiale, disinformata, a tratti cialtrona dell’industria editoriale.

 

Prendiamo atto che alcune delle nostre osservazioni hanno convinto gli organizzatori a porre un tardivo rimedio ad alcuni non irrilevanti dettagli tecnici. È comunque motivo di rammarico che le istituzioni di questa città, ancora una volta, si dimostrino miopi di fronte alle istanze della vasta comunità culturale locale, rivelandosi troppo permeabili all'azione di soggetti che, per interessi o per limiti di sensibilità e visione, sventolano la bandiera dell’impegno culturale declinandola nella sua forma più triviale e grossolana. Un occhio attento a questi temi, che ci aspettiamo dagli organi di governo di una città come Firenze, dovrebbe essere in grado di riconoscere le operazioni che si fondano su un concetto di democrazia culturale che della democrazia ha solo i difetti, come l’uso della retorica contro i più deboli.

 

L’ulteriore elemento della presenza di leader politici la cui ideologia è antitetica ai valori che abbiamo elencato in apertura - cultura come bene comune, trasparenza, partecipazione - costituisce un tardivo campanello d’allarme per chi, a Firenze, decide delle politiche culturali.

 

Quelle stesse politiche culturali abbandonate a se stesse, in assenza di un vero e competente referente istituzionale, e che in più occasioni, negli ultimi anni, hanno permesso che delle iniziative quantomeno discutibili trovassero non solo ascolto ma spazio pubblico e riconoscimento in città.

 

Un evento come Firenze Libro Aperto, infatti, non solo presenta una versione falsata dell’industria editoriale - contribuendo così alla sua crisi - ma mette in risalto la disattenzione delle istituzioni pubbliche nei confronti delle risorse più vive e feconde che questa città ha da offrire. Il risultato finale è uno svilimento della proposta culturale complessiva, un suo appiattimento su eventi e iniziative privi di reale sostanza, e di conseguenza un impoverimento dei consumi culturali dei cittadini. Questo è dunque l’esito finale di tale distrazione: rendere un pessimo servizio ai cittadini di Firenze. Ed è di questo che noi chiediamo conto.

 

Francesco Ammannati
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