L'ingresso ad Auschwitz con la scritta "Il lavoro rende liberi" (foto di tsaiproject via Flickr)

La Memoria e la narrazione del dolore che servirebbe, soprattutto oggi

Nicoletta Tiliacos

“Il sacrificio del fuoco” (Giuntina), tra bombe e salvezza

Roma. Nel genocidio degli ebrei che si consumò in Europa tra il 1936 e il 1945, il critico George Steiner ha visto “l’attuazione di un impulso suicida della civiltà occidentale”. A cercare il suicidio, sotto il bombardamento che le incendia la casa e da cui rifiuta di cercare scampo, è anche la protagonista di un racconto di Albrecht Goes, “Das Brandopfer”, pubblicato in Germania nel 1954 e ora edito da Giuntina con il titolo “Il sacrificio del fuoco” (50 pp., 10 euro, traduzione di Giada D’Elia). La signora Walker, che mostra sul viso solo il segno di un’ustione, a guerra ormai finita da qualche anno decide di rivelare come fu salvata al giovane bibliotecario che ha affittato una stanza nella sua casa. Gli racconta perché si trovò a desiderare la morte e perché le sembrò inevitabile l’offrirsi in sacrificio, dopo tutto il dolore e l’abiezione a cui aveva assistito. A lei, cittadina tedesca e ariana, era stato imposto dalle autorità di vendere la carne agli ebrei, ogni venerdì pomeriggio dalle cinque alle sette, nella piccola macelleria che gestiva da sola, da che suo marito era stato richiamato alle armi. La sua era l’unica bottega in città autorizzata a dare carne agli ebrei, e solo a quelle condizioni.

Siamo in Germania, negli anni tra il 1942 e il 1943, quando la “soluzione finale” ha già assunto i caratteri evidenti dello sterminio di massa. Già dalla prima sera, mentre nel negozio cominciano ad arrivare i clienti, la signora Walker “vede” all’improvviso, come svegliandosi da un torpore impaurito, “tutto quello che c’era da vedere”. Vede uomini e donne sfiniti, perché era loro vietato l’uso del tram e perfino quello delle panchine per riposare e magari avevano camminato ore prima di raggiungere la macelleria, per prendere con le loro tessere miserevoli quantità di carne. “Le ho già detto che non sapevo quasi nulla degli ebrei. Solo attraverso quel dolore che ogni venerdì sera mi veniva gettato davanti agli occhi imparai a conoscerli”, spiega la donna al bibliotecario. “Mi passavano sul bancone due tessere per bambini. Ma io non vedevo le tessere con i numerosi riquadri vuoti, io vedevo proprio i bambini”. Un venerdì sera, la signora Walker aveva detto a due madri che trascinavano con sé i figli piccoli di farli riposare lì, nel suo negozio, mentre loro terminavano le loro commissioni. Anche questa era insubordinazione, nel Terzo Reich. A poco a poco, gli ebrei capiscono che possono fidarsi della signora Walker. Capita che, mentre nel negozio ci sono ancora alcune persone, la campana della Petruskirche suoni le sei, l’inizio dello Shabbat. Il vecchio rabbino, che si trova lì, pronuncia una parola ad alta voce: “Aveva detto ‘shalom’, e a quella parola tutti coloro che erano in negozio rimasero immobili, in silenzio. Poi parlò di nuovo e mi resi conto: questa è una preghiera o un passo della Bibbia, e tutti sono con lui. In questo momento il negozio è la loro sinagoga”. Poi tutto precipita. Una delle clienti, la signora Zalewsky, è incinta e prossima al parto. Un uomo in uniforme (“il gigante Golia”, lo chiama la signora Walker), abituato a fare irruzione nel negozio per controllare che tutto si svolga secondo le regole, la insulta e le urla ridendo che presto tutte le ebree come lei, insieme con i loro figli nati o ancora nel ventre, passeranno per un camino. La sera stessa, la signora Zalewsky busserà alla porta della macellaia e la pregherà di prendere una carrozzina, quella che aveva preparato per il bambino che, ormai lo sa, non nascerà mai o comunque non vivrà.

 

La signora Walker, rimasta sola, si scopre all’improvviso troppo stanca e disperata per vivere in un mondo dove “una donna che aspetta un figlio è costretta a dar via la carrozzina perché contro di lei e contro suo figlio non ancora nato è stata pronunciata senza ragione una condanna a morte”. Per questo, proprio quella sera, quando comincia a suonare l’allarme antiaereo e quando la sua casa comincia ad andare a fuoco sotto le bombe, la signora Walker non si muoverà, resterà seduta al suo tavolo. A salvarla, ed è la seconda parte del racconto, sarà un ebreo, uno dei suoi clienti, che mentre cerca di mettersi in salvo dal bombardamento (non nel rifugio, dove gli ebrei non potevano entrare), si accorge che sta andando a fuoco la casa della macellaia buona. La vede dalla finestra, inerte, seduta al tavolo senza muoversi, già circondata dal fumo e dalle fiamme. Entra, la trascina via. Dio non ha voluto la vittima sacrificale, sussurra la donna a chi l’ha salvata. Il fuoco che doveva divorarla si è rivelato come quello del roveto ardente, che Mosè vede bruciare ma non consumarsi, perché Dio non vuole né olocausti né “il grasso dei vitelli” (Isaia 1, II).

 

“Il sacrificio del fuoco” rivela l’evidente senso di colpa che il suo autore, il pastore protestante Albrecht Goes, nutrì per tutta la vita nei confronti degli ebrei. Egli aveva prestato servizio come cappellano militare nell’esercito del Reich tra il 1942 e il 1945, e il personaggio della signora Walker incarna ciò che egli avrebbe voluto e non poté fare, vale a dire scegliere fino in fondo il campo dei vinti. Ma se la memoria, come ha scritto il filosofo Zygmunt Bauman in uno dei suoi ultimi interventi, diventa capace di dare frutti solo quando si trasforma in narrazione compiuta, questo emozionante e bellissimo racconto di Goes – che mentre scriveva “Il sacrificio del fuoco” maturava la decisione di abbandonare l’attività di pastore per dedicarsi solo alla scrittura, come poi fece fino alla morte, nel 2000 – mantiene pienamente la sua promessa.

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