(foto LaPresse)

Le fake news sono sempre esistite, il problema è saperle verificare

Giovanni Maddalena

Tanti modi per definire le notizie false. Categorie ragionate

Grazie al prestigioso Oxford dictionary, l’anno scorso abbiamo imparato la parola “post-truth”. L’ha citata Renzi nelle sue dimissioni e quasi ogni potente occidentale ne fa menzione nei discorsi pubblici. Riassumendo il suo recente sorgere, il celebre dizionario la inserisce tra i neologismi mentre la classe dirigente occidentale scopre che il potere di raccontare bufale o balle, di farle credere e di far poggiare su di esse il consenso ai propri scopi, non è più una sua proprietà esclusiva. Così dopo aver passato decenni a rimproverare, osteggiare, stigmatizzare chiunque avesse un’idea forte – o anche solo non debolissima – di verità, improvvisamente si mette a cercare garanti di verità. Cominciando da Zuckerberg e Pitruzzella, tutti adesso ci raccontano dell’importanza della verità e ne vorrebbero pure tutori e possessori, secondo una concezione positivista e scientista ben più forte e violenta di quella contestata negli ultimi decenni. Ma si sa, la coerenza, tanto più quella intellettuale, è importante soprattutto per gli altri. Prima di parlare della verità, complessa relazione dell’uomo con la realtà, cerchiamo almeno di ricordarci che anche le “bufale” si possono dire in molti modi e che coloro che ora le hanno in abominio le hanno sempre usate, anche qui in molti modi.

In questo elenco sommario cominciamo dal tipo più forte: la notizia inventata e/o costruita. Grande specialità politica fin dall’antichità, essa ha avuto momenti contemporanei di gloria quando Bismarck la usò per far scoppiare la guerra franco-tedesca manipolando e pubblicizzando ad arte una risposta del proprio imperatore all’ambasciatore francese e quando Hitler utilizzò false privazioni subite dai tedeschi nei Sudeti per poterli occupare. In tempi più recenti, le armi di distruzione di massa in Iraq non erano meno fake delle fosse comuni romene del dittatore Ceausescu o di quelle servite a Sarkozy e Obama per promuovere un attacco fatale a Gheddafi. Passiamo ora al genere “profezia”. Certo è grave che qualcuno sul web abbia fatto circolare la voce che le gradazioni del terremoto sarebbero state alterate per consentire allo stato di non fornire dei contributi. Ma non è meno grave il comportamento di quelli che hanno previsto il crollo del mercato dopo (nell’ordine) Brexit, Trump, referendum italiano. Solo per stare all’ultimo episodio, dovevano crollare 8 istituti di credito. Invece, l’unico che crolla è quello che stava già crollando.

Il sottogenere della profezia è “l’annuncio”, specialità della casa dei governi italiani di ogni epoca. L’annuncio consiste nel promettere che si farà qualcosa e nel cominciare a farne il meno possibile per dire che si è cominciato, salvo poi non portarlo a termine o portarlo a termine in modo del tutto diverso da quanto annunciato. I tanti mostri di cemento di edifici mai terminati che costellano il sud d’Italia sono una drammatica icona di un costume che non è dei soli politici. In ogni caso, per non essere da meno, l’uscente presidente statunitense ha operato per via d’annuncio, nelle sue varie gradazioni, sia con la riforma sanitaria sia con la chiusura della celebre prigione di Guantanamo. E non è un caso che la sua credibilità ci abbia rimesso.

Infine, in questa short list, non possiamo non citare l’opinione vaga e il termine generico. Il complottismo che spiega sempre tutto senza mai dire chi, quando e dove, è stato usato di recente da entrambe le fazioni su tutte le già citate sfide elettorali occidentali così come per decenni è stato applicato fumosamente agli “americani”, ai “comunisti”, alla “massoneria”. E ora, finalmente, viene utilizzato per i cattivissimi “populisti”, temine che identifica, senza ulteriore connotazione, tutti gli avversari dell’establishment. In gradazione diversa le bufale ci sono, ci sono sempre state e sempre ci saranno, soprattutto quando in gioco ci sono grandi interessi. Il problema effettivo è capire come si compie invece una verifica, ma gli esempi menzionati fanno capire che una verifica non può essere un’opzione individualista (se non i casi rarissimi) e, tanto meno, può dipendere dall’autorefenziale autoasserita credibilità che un gruppo assegna a se stesso. E’ ora che tutti noi, appartenenti – volenti o nolenti – a questa ricca e acculturata élite del mondo ammettiamo molti errori e mettiamo mano di nuovo all’antico problema della verità e a quello forse ancora più affascinante della verifica, che non a caso vuol dire “rendere vero”. 

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