Il grande fratello siamo noi

Fabio Chiusi

"Sembriamo non provare alcuna gioia nell’avere segreti”, scrive Zygmunt Bauman con un misto di rimpianto e preoccupazione per le dinamiche della società che fu e del potere che sarà.

"Sembriamo non provare alcuna gioia nell’avere segreti”, scrive Zygmunt Bauman con un misto di rimpianto e preoccupazione per le dinamiche della società che fu e del potere che sarà. Un potere che, con e oltre il Michel Foucault di “Sorvegliare e punire”, non solo cerca di “rendere il proprio esercizio innecessario”, ma c’è in larga parte già riuscito. Merito della seduzione di quella tecnologia, Internet, che si vorrebbe a ogni costo liberatoria, salvifica. Del piacere che si prova a condividere tutto di sé. Di quella maschera attraente che il controllore indossa nei social media o nelle maglie del Web. “I am seen, therefore I am”, pensano gli utenti. Non hanno considerato, ammonisce il sociologo Bauman in un libro-conversazione con David Lyon di prossima uscita negli Stati Uniti (“Liquid Surveillance”, Polity Books), che l’altra faccia dell’esserci digitale è il controllo. Che l’altra faccia della visibilità è uno stato di sorveglianza continua e, soprattutto, volontaria.

Lo scriveva Etienne de la Boétie nel sedicesimo secolo: “La prima ragione della servitù volontaria è l’abitudine”. E noi, come il cavallo cui “si mozzano le orecchie e la coda”, abbiamo perfino smesso di mordere il freno. Ora, tra un tweet e l’altro, ci lasciamo “adornare ed equipaggiare”. Anzi, ne siamo fieri. Per questo, forse, il discorso sulla sorveglianza digitale è tanto minoritario nella vulgata sulle conseguenze sociali e individuali dello sviluppo tecnologico. Il potere l’ha capito, anche se ci sono voluti secoli: il modello non è la repressione perfetta, ma la perfetta soddisfazione dei desideri altrui. Non di desideri qualunque: proprio dei nostri, dei miei. Non Orwell, se non per gli esclusi, scrive Bauman. E anche se le distopie “solide”, da “1984” al “Mondo Nuovo”, vengono considerate inadatte alla modernità “liquida”, è proprio l’incubo di Huxley, a venire alla mente. Con la sua capacità instancabile di creare bisogni ad hoc e soddisfarli. Un po’ l’“autopropaganda invisibile che ci indottrina con le nostre stesse idee” di cui parla Eli Pariser ne “Il Filtro”: l’idea che insieme alla personalizzazione dei contenuti e dei risultati di ricerca venga una sorta di dittatura delle nostre preferenze su noi stessi. Se “nell’armamentario del Panopticon c’era il bastone, ma non la carota”, siamo dunque nel “post Panopticon”, per Bauman. In un mondo in cui non serve nemmeno più che la benthamiana casa d’ispezione abbia mattoni e inferriate, per rappresentare il luogo del controllo: la sorveglianza è liquida appunto perché non centralizzata, ma indossata da ciascuno di noi a suo modo. Il che significa che la simmetria tra controllati e controllore, quel rapporto di costante minaccia esercitata dalla torre che tutto vede, ma non si sa quando, si è rotta. E non a favore dei primi.

Ma da dove viene, e come origina la servitù volontaria contemporanea? Per rispondere, Bauman cita Joseph Nye e Pierre Bourdieu, raccontando al Foglio come lo scienziato politico statunitense abbia rovesciato il motto di Machiavelli per cui è meglio essere temuti che amati, dato che non si può essere entrambe le cose: “Che fosse valido per i principi è questione dibattuta, ma di certo non vale per presidenti e primi ministri di oggi”, dice. Perché la paura non è meno instabile dell’amore, come spinta alla sottomissione. E, soprattutto, “le persone non sono più docili come erano, o come si credeva fossero, e hanno meno paura delle punizioni per aver disobbedito”. Il problema è che, “dall’altro lato, sono più soggette alle seduzioni” – digitali, s’intende – proprio mentre aumenta la loro “sofisticazione tecnica”. Cambia, in altre parole, il bilanciamento tra hard e soft power, con il secondo (la seduzione) che prende il centro della scena, e il primo (la coercizione) relegato ai margini. Il potere ha compreso che deve nascondere il controllo nello svago, la casa d’ispezione nelle pagine web. Perché altrimenti “la servitù viene percepita come imposta, e dunque genera resistenze”, argomenta Bauman nella nostra conversazione via mail. A questo modo, invece, la servitù è fraintesa, scambiata per “una manifestazione di libertà e come tale abbracciata con gratitudine”. E il terrore del Panopticon, “non sono mai solo”, si rovescia nell’anelito inverso: “Non essere mai più solo”. Per riuscirci abbiamo bisogno della nostra servitù. La stessa che, come il cavallo di De la Boétie, ci gonfia il petto. E che ci fa indignare quando sia messa in discussione. Quando per esempio leggiamo, da un paladino del libero web come Julian Assange, che Internet è “la più vasta macchina per spionaggio di sempre”. Anche se sappiamo, basta cercare proprio in Rete, che l’intelligence Usa vuole una porta d’accesso su tutti i nostri dati per comporre, come in “Minority Report”, previsioni di crimine. Che, è notizia recente, spende un miliardo di dollari in software di riconoscimento facciale che già oggi sono abbastanza sviluppati da permettere alle telecamere di un negozio di risalire al proprio profilo Facebook, e comporre offerte personalizzate sulla base di ciò che abbiamo scritto sulla nostra bacheca. E che tecnologie per individuare i criminali, l’ultimo esempio è FinSpy della britannica Gamma Group, vengono usati per registrare le chat su Skype, i tasti premuti sulla tastiera per fotografare il monitor di dissidenti politici in una dozzina di regimi autoritari. “E’ il soft power, nella società ‘liquida’, ciò a cui mira il potere”, dice il sociologo. “Costa meno ed è meno rischioso. Anche se l’alternativa non è del tutto abbandonata”, precisa subito. “La repressione, dall’incarcerazione all’adempimento economico forzato, viene applicata su ogni sorta di minoranza che non voglia o non sia capace di ingoiare l’esca ed essere sedotta alla resa”. Nel volume, Bauman definisce questo ruolo escludente della sorveglianza con il nome di ban-opticon: il “verdetto di morte sociale” per chi, nei profili costruiti su montagne di dati, sia inadatto per esempio a varcare un confine, o a usufruire di una carta fedeltà. E vi accoppia il suo perfetto complemento, il synopticon: la sorveglianza dei molti sui molti, la sorveglianza senza sorveglianti per cui “non c’è più bisogno di costruire mura resistenti ed erigere torri di guardia per tenerci dentro i prigionieri”. Perché “ci si attende che siano loro stessi a erigere le mura e stare all’interno del loro perimetro di loro stessa volontà”. A preoccupare Bauman è anche l’informatizzazione del corpo, la sua riduzione a un insieme di dati. Qui l’esempio sono il migrante e il musulmano, confusi con ciò che la macchina del controllo sa del loro corpo, e di conseguenza criminalizzati, messi da parte prima ancora che possano smentire l’immagine che il potere ha di loro. C’è una perdita di relazionalità, in questa riduzione: e se, come insegna Lévinas, la propria umanità emerge e si scopre rispetto all’Altro, noi la stiamo perdendo, ammonisce Bauman, che in queste pagine sembra riecheggiare il pessimismo del Jaron Lanier di “You are not a Gadget”. E che il sociologo abbia abbracciato lo scetticismo si legge chiaramente anche nell’elogio incondizionato delle critiche di Evgeny Morozov alla retorica della Rete capace solo di rivoluzioni, egalitarismo e democrazia. Non c’è nel libro, ma nella nostra conversazione a distanza: “Morozov identifica i tanti modi in cui i regimi autoritari possono sconfiggere i combattenti della libertà”, virgolette naturalmente, “al loro stesso gioco, usando la tecnologia cui gli apostoli e i difensori del bias democratico di Internet affidano le loro speranze”. Nel libro, invece, si racconta dei modi in cui i dissidenti possono essere identificati dai tiranni attraverso la Rete: “La sorveglianza tramite i social network è resa molto più efficace grazie alla collaborazione delle stesse vittime”, dice. Basta seguire le tracce che lasciano sul Web.

Ma è un pessimismo più ampio, che riguarda l’individuo che usa la Rete, più che la Rete in sé: “Viviamo in una società-confessionale”, confida, “che ha promosso l’auto esposizione al rango di prova prima e più facilmente disponibile dell’esistenza sociale. I social network, registrando pubblicamente gli aspetti più intimi e altrimenti inaccessibili delle nostre vite private, sono il territorio di una forma di sorveglianza volontaria, Diy, che sconfigge a mani basse le agenzie specializzate dei professionisti dello spionaggio e della detenzione”. E che si ripete, giorno dopo giorno, “grazie alla nostra attiva e gioiosa partecipazione”. Tuttavia, anche se depotenziata, la “nuda violenza” di Orwell resiste, come uno spettro. “Siamo diventati drogati di sicurezza”, si legge nel testo, per evitare di finire tra gli esiliati e gli inadatti, tra gli Altri che non siamo più capaci di comprendere, che ci fanno paura. E, per non guastarci l’umore, abbiamo imparato a sottrarre quell’esclusione dalla sfera morale. Si pensi all’uso dei droni nelle operazioni militari: “Se vengono uccisi degli innocenti, è un errore tecnico, non morale”, scrive Bauman.

Per questo, insieme con Lyon, fa suo l’appello di Gary Marx del 1998, per un’etica della nuova sorveglianza. Capisaldi: dignità della persona e tutela della loro incolumità. E rigetto del “feticismo della soggettività”, cioè della servitù volontaria trasformata in “avanzamento per la libertà” dei sottomessi. Un programma fortemente antiriduzionista, in altre parole, che riecheggia l’etica della fine dei tempi di Jonas, l’imperativo di un’umanità che o abbandona l’autodittatura o abbandona se stessa. Ma anche un programma laico, che chiede per la sorveglianza digitale il vaglio del buonsenso, l’analisi costi-benefici piuttosto che l’adesione incondizionata a questo o quel modello teorico. E non è detto che nell’abitudine che ci ha portati quasi senza domande a questa strana felicità stia anche l’inizio del cambiamento, il puntare l’occhio che tutto vede su se stesso. “Proprio come le lumache portano con sé le loro case, così gli impiegati del nuovo mondo liquido devono sviluppare e portare i loro Panopticon personali sui loro stessi corpi”, scrive infatti Bauman. Ma ciò significa che chiunque, senza sforzo tecnico, può diventare a sua volta la torre di quei Panopticon: colui che guarda, senza essere visto.
Lo sviluppo del wearable computing e della realtà aumentata, come anticipato dai progetti di Google, Rim e Apple, segnerà forse il momento di non ritorno, il momento storico in cui ogni individuo potrà diventare uno strumento vivente di delazione nelle mani del potere oppure un suo scomodissimo cane da guardia. Negli ultimi tre secoli abbiamo assimilato la logica del controllo, sembra suggerire Bauman, al punto di diventarne tutt’uno. Ora potrebbe essere giunto il momento di prenderne coscienza, aprire gli occhi, puntarli sul carceriere. Del resto, si può concludere con De la Boétie, “Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia, se voi non glieli forniste?”.

di Fabio Chiusi

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