(foto LaPresse)

Peschereccio espiatorio? No, grazie

Giuliano Ferrara

Il regista Iñárritu propone di esporre un barcone in Piazza Duomo ma far diventare la città della Borsa il capro espiatorio di un insensato senso di colpa è un cattivo presagio, che ha un significato mesto e inveritiero

Sostiene Michele Serra che il peschereccio recuperato dal fondo del mare, con il suo carico di morte per acqua, una volta esposto in piazza del Duomo a Milano, secondo la proposta del grande regista Alexandro Iñárritu, metterà a tacere ogni polemica lurida sul tema dell’accoglienza con la sua anonima poppa senza nome, la sua vernice azzurra stinta, la sua evidenza di opera d’arte (e di morale umanitaria). E’ un modo sensibile e intelligente di vedere la cosa. C’è però un equivoco da dissipare. L’evidenza dell’arte pop si presume assoluta, come l’evidenza di ogni testimonianza che abbia un senso per l’umano, ma il segno nascosto del peschereccio ancorato in piazza, la nave che non arrivò mai in porto, è quello di un monumento al senso di colpa. La vita abbondante e polposa, da stato del benessere in un sistema capitalistico occidentale, si vedrà richiamata, nel centro di una città simbolo dell’economia, della finanza e della cultura in Europa, a un suo peccato originario, sepolto anch’esso sotto una massa d’acqua che è la coscienza del profondo. Con un problema importante, essenziale. Io sono impietrito da quel che è accaduto e accade nel mio mare, il Mediterraneo, e da molti anni. Il pudore mi impedisce di rendere pubblico in modo petulante e alla fine insincero un sentimento privato. Ma non mi sento in colpa e vorrei che nessuno dei miei concittadini si sentisse in colpa, tanto meno se in una oltraggiosa e loquace forma che è l’ostentazione quotidiana dei buoni sentimenti.

Da questo punto di vista la bella idea di Iñárritu è esposta a un serio fraintendimento. Io mi rammarico, questo sì, di aver fallito con generazioni di italiani di europei e di occidentali nel proposito di rendere il mondo e la vita umana più accettabili. Sono addirittura politicamente furioso con l’impotenza multilaterale di un occidente incapace di pacificare con le sue armi, diplomazia denaro tecnologia cultura eserciti, la parte di mondo da cui la nave è partita stabilendo la sua rotta della salvezza che non ci fu. Sono deluso dall’incarognimento provocato dalla insana e demenziale dialettica tra le frontiere aperte e le frontiere chiuse (partono fuggendo la paura e la miseria perché le frontiere sono aperte, ma la rotta è selvaggia e oscura e porta al fondo del mare, e le frontiere si chiudono fra gli applausi di chi teme il rimpiazzo dei nativi a mezzo della cosiddetta invasione di civiltà). Ma non mi sento in colpa. Se pensassi, e qualcosa me lo lascia pensare, al carattere equivoco del monumento, al suo muto evidente rimprovero, e ipocrita, verso il mio modo di vita e i risultati acquisiti nel tempo, che sono la destinazione sognata dalle flotte della morte per acqua, guarderei di sbieco il peschereccio come una installazione provocatoria, ispirata alla doppia verità.

 

C’è molta violenza, anche autolesionista, in giro per il mondo e in Italia. Forconi arrestano in strada ex deputati ignari con i capelli bianchi, e i carabinieri guardano attoniti lo spettacolo. C’è un grande bisogno del capro espiatorio. I discorsi che si fanno in pubblico sono del tutto fuori controllo. La gioia per gli sforzi magnifici che hanno salvato migliaia di persone in mare, e che hanno con passione volontaria e decisione simbolica perfino fatto riemergere il simbolo in legno della strage dei settecento naufraghi, quella gioia non si vede, non è installata da nessuna parte. Che la città della Borsa e della finanza e altre città occidentali del mondo debbano diventare il capro espiatorio di un monumentale senso di colpa, sentimento notoriamente aggressivo, mi sembra un cattivo presagio che la buona coscienza esibita di molti e un’installazione dell’arte pop non riescono a riscattare dal suo significato mesto e inveritiero. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.