Roger Scruton (foto di Youtube)

Scruton sotto schiaffo

Giulio Meotti
Il filosofo inglese nel mirino dell’Università di Bristol: “E’ reazionario, toglietegli la parola”. Il dorato mondo incestuoso dei liberal che disprezzavano i bianchi pro Trump. “La vittoria di Trump è un ripudio sconcertante delle élite culturali liberal, in particolare della loro correttezza politica”.

Roma. A ottobre, il Foglio aveva spiegato che anche nelle università britanniche stava prendendo piede la moda dei “safe space”, ovvero gli spazi sicuri che mettono gli studenti al riparo da idee nocive e anticonformiste, e che hanno infestato le oasi liberal accademiche in America, generando non poca isteria. Studenti alla Durham University nel Regno Unito si sono lamentati per esempio del fatto che in aula si “parlava degli stupri nel ‘Tito Andronico’”. Alla Goldsmiths University si avvertono invece gli studenti che certi corsi “potrebbero essere sensibili per alcuni”: il sesso fra minorenni, l’autolesionismo, l’uso di droghe, l’Aids, gli “stili di vita queer” e la religione. Considerando questo grottesco livello di santimonia e autocensura, non è difficile capire quanto la presenza di Roger Scruton all’Università di Bristol abbia fatto infuriare non pochi studenti, professori e burocrati universitari. Così ora alcuni esponenti dell’Università di Bristol stanno tentando di disinvitare “uno dei più eminenti filosofi del Regno Unito”, come lo ha definito ieri l’Independent, a causa di “commenti omofobici” che Scruton avrebbe fatto diversi anni fa. L’intellettuale era stato invitato a Bristol per le celebri Richmond Lectures. I rappresentanti sindacali hanno sollevato la questione sui commenti di Scruton sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in particolare, quelli presenti nel suo libro del 1986 “Sexual Desire”, in cui Scruton passa in rassegna secoli di filosofia e di letteratura erotica, da Schopenhauer a Kundera, e in un suo celebre e controverso articolo nello Spectator dal titolo “Il matrimonio omosessuale è omofobo”.

 

Giornalista e romanziere, Rod Dreher è il caporedattore dell’American Conservative e uno di quelli che di più e per primo ha intercettato Trump: “La vittoria di Trump è un ripudio sconcertante delle élite culturali liberal, in particolare della loro correttezza politica”, dice al Foglio. “Per questo gli sono grato. Ma i conservatori non dovrebbero fare l’errore di pensare che si tratti di una affermazione di conservatorismo. Trump non è un conservatore filosofico, e non è certo un conservatore religioso o morale. Trump rappresenta due Americhe. L’America di persone che lavorano duramente, ma non credono che siano giustamente ricompensati per il loro lavoro. Piuttosto, vedono i ricchi prosperare. E sanno che le élite nei media, nel mondo accademico, nel diritto, nell’economia e altrove, disprezzano persone come loro, e non gli permetteranno l’accesso ai loro circoli. L’altra America è un’America di perdenti che dà la colpa di tutto agli altri per i loro problemi. Ciò che unisce queste due Americhe dietro Trump, penso, è il sentimento che queste persone abbiano perso il controllo del proprio destino”. 

 

“Trump è il furore popolare contro i sogni utopici antidemocratici di una élite, che è essa stessa antidemocratica data la mancanza di risonanza del suo messaggio”, dice al Foglio Victor Davis Hanson, storico conservatore della California State University e all’inizio critico del populismo trumpiano. “La gente è stanca delle élite autoacclamate. Quanto più il presidente Obama, Hollywood, la Silicon Valley, la stampa di Washington, Wall Street e gli esperti delle due coste tengono conferenze in America, tanto più l’America ne ha abbastanza”. Che cosa è andato storto nelle élite? “Vivono in una bolla, parlano solo tra di sé, e mai veramente hanno capito l’America tra le due coste. Sono arroganti e non hanno la volontà di parlare a tutti. Obama per otto anni ha sminuito milioni di americani e continuava a parlare davanti a loro, fino ai ‘déplorables’ di Hillary. La stessa cosa sta accadendo in Europa”. E’ il nuovo “Alienatus Americanus”.

 

Secondo Hanson è “l’americano di tutti i giorni”, uno “straniero” stanco delle “preoccupazione dei membri della costa le cui vite incestuose emergono nell’ultimo tesoro WikiLeaks. Le classi lavoratrici bianche sono sempre più il bersaglio della caricatura popolare. Sono grammaticalmente scorrette e obese che abitano il reality show degli ultimi dieci anni. A volte i giornalisti del New York Times, nel ruolo di antropologi culturali, riferiscono di quanto strane siano le persone che vivono tra i corridoi della costa, i buffoni inetti dell’America rurale, psicopatici criminali sfigurati da tatuaggi e accenti sinistri. Trump ha ottenuto la simpatia tra gli americani estraniati perché rappresenta la scelta nichilista: l’idea di un Sansone umiliato e condannato che tira giù le colonne del tempio filisteo. Nel caso degli antichi Romani o delle classi dirigenti britanniche, territorio, nascita, educazione, denaro e notorietà culturale sono stati tra gli ingredienti che hanno fatto un establishment. Ma la nostra élite americana moderna è diversa. La residenza, sia nel Boston-Washington, o sia nel corridoio San Francisco-Los Angeles, è un requisito.

 

L’esposizione pubblica conta come l’istruzione, Harvard, Yale, Princeton, Berkeley, Stanford. Ma molti miliardari, in particolare nel Midwest, non fanno parte delle élite, in quanto il loro denaro non si traduce in influenza politica o culturale. Particolarmente influenti sono i multimilionari della porta girevole, le banche e Wall Street, i Tim Geithner, i Jack Lew, gli Hank Paulson, i Robert Rubin, ognuno dei quali è venuto alla Casa Bianca e nelle burocrazie per arricchirsi, ma che sembrano sempre scioccati quando il pubblico non apprezza i loro percorsi incestuosi di salvataggi, piani di soccorso, regolamenti. E’ il nesso tra Big Government, Big Money e Big Media”. Incestuoso, conclude Hanson: “Susan Rice è sposata con l’ex produttore televisivo Ian Cameron. Ben Rhodes, che ha redatto i talking points su Bengasi e si vantava di ingannare il pubblico sull’Iran, è il fratello del presidente della Cbs News David Rhodes. John Kerry è sposato a Teresa Heinz, la vedova. L’ex addetto stampa di Obama Jay Carney ha sposato Claire Shipman di ‘Good Morning America’. Huma Abedin è sposata al sexter Anthony Weiner. Mark Zuckerberg ha attaccato i muri di confine ma è coinvolto in controversie sulle pattuglie di sicurezza per creare una Linea Maginot intorno alla sua casa a Palo Alto. Quello che mi offende di più degli uomini vuoti di Washington non sono le fonti e i metodi attraverso i quali accumulano ricchezza, potere e influenza, o i valori che abbracciano per perpetuare il loro privilegio, ma l’indignazione finta che esprimono quando qualcuno osa suggerire, con le parole o il voto, che essi sono mediocri”. 

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.