Leonard Cohen è morto il 7 novembre a 82 anni (foto LaPresse)

La storia di Hallelujah

Eugenio Cau
E' stato il suo brano più travagliato. Leonard Cohen non azzeccò né la prima né la seconda versione della sua canzone più iconica. Ma poi Hallelujah è diventata un inno, una consolazione e una preghiera, ed è stata cantata da tutti, proprio tutti.

La prima versione che Leonard Cohen compose di Hallelujah, la sua più grande e celebre ed emozionante canzone, faceva schifo. Forse schifo è una parola eccessiva, e attribuirla a Leonard Cohen, morto il 7 novembre a 82 anni, è un sacrilegio imperdonabile. Ma ecco, Leonard Cohen non azzeccò né la prima né la seconda versione della sua canzone più iconica. Hallelujah è diventata un inno, una consolazione e una preghiera, ed è stata cantata da tutti, proprio tutti, da Bob Dylan agli U2. E’ diventata la colonna sonora di infiniti film e cartoni animati, è il jingle di centinaia di pubblicità, è cantata nei karaoke, nei bis dei concerti tenuti nei seminterrati vuoti e negli stadi davanti a migliaia di persone. Tutti conoscono Hallelujah, tutti hanno canticchiato Hallelujah almeno una volta nella loro vita. 

 

Ma Hallelujah è stata la canzone che più ha tormentato Cohen nel corso della sua carriera – e chi conosce l’opera di Cohen sa che il cantautore canadese era abituato ai tormenti. La storia del brano è tanto complessa e interessante e rappresentativa della carriera di Cohen che il musicologo Alan Light le ha dedicato un intero libro, “The Holy Or the Broken”, uscito nel 2012. Più di recente, il giornalista e intellettuale Malcom Gladwell ha dedicato ad Hallelujah una puntata del suo podcast “Revisionist History”, intervistando Light.

 

Il primo aneddoto meraviglioso riguardo ad Hallelujah è che il primo scopritore e fan della canzone fu Bob Dylan. Cohen e Dylan hanno sempre avuto un’ammirazione strisciante l’uno per l’altro, e quando finalmente si incontrarono, negli anni Ottanta, il cantautore americano disse al canadese che Hallelujah era uno dei suoi pezzi preferiti. Quanto tempo hai impiegato a scriverla?, chiese. Cohen rispose: due anni, ma era una bugia. Cohen ha impiegato molto più tempo a scrivere Hallelujah, e Light stima che abbia composto almeno 50-70 versioni diverse. L’aneddoto continua così: Cohen chiese a Dylan quanto tempo avesse impiegato a scrivere la canzone I and I, dall’album "Infidels". Dylan rispose: quindici minuti. Entrambi avevano talenti sconfinati, ma agli antipodi per modalità di espressione.

 

Cohen aveva passato cinque anni a scrivere Hallelujah, e parlerà in seguito di nottate intere trascorse sveglio, in mutande nella sua camera d’albergo, a sbattere la fronte sul pavimento perché non riusciva a risolvere il mistero di quella canzone. Alla fine, Cohen la registrò nel 1984, nell’album “Various Positions”, che fu però era un tale disastro da venire rifiutato dalla sua casa discografica, Cbs Records. Fu pubblicato da un’etichetta indipendente e fu un fiasco. E anche Hallelujah, appunto, faceva un po’ schifo:

 



 

Ma Cohen è un genio riflessivo. Quella canzone lo ossessionava, e lui continuerà a rimaneggiarla, a cambiare ritmi e timbri e fraseggi, e a ogni data del suo tour ne porterà sul palco una versione diversa, fino ad allungarla abnormemente, come in questo live del 1988, in cui Hallelujah è quasi il doppio dell’originale:

 

 



 

Una sera, tra il pubblico di uno dei concerti di Cohen c’è anche John Cale. Cale è una leggenda musicale alla pari di Cohen. Negli anni Sessanta fondò insieme a Lou Reed i Velvet Underground, e senza di lui la musica rock come la conosciamo adesso non esisterebbe. Quando sente Hallelujah, seppure nella sua versione lunga e lagnosa, Cale rimane abbagliato. E’ uno dei più grandi geni della musica del Novecento, e in quanto tale capisce – come lo capiva anche Cohen, che pure non riusciva a risolvere il mistero – che Hallelujah è un capolavoro. Alla fine del concerto, Cale chiede all’artista canadese di mandargli il testo della canzone per farne una cover. Cohen gli manderà quindici pagine di testi e appunti, il risultato di anni di rovelli irrisolti. Sarà Cale a prendere parte di quel romanzo che ormai era diventato Hallelujah, a scegliere, a detta sua, le parti più “sfacciate” del testo, a ricombinarle e a riportare alla luce i riferimenti biblici che Cohen aveva scartato negli anni. Cale cambierà perfino alcune parole, e il risultato è una canzone vicinissima alla Hallelujah che conosciamo, praticamente già perfetta. E’ stato John Cale, scrive Alan Light, a risolvere il mistero di Hallelujah:

 



 

Ma anche questa versione non ottiene un grande successo. Fu registrata all’interno di un album di cover di Cohen dato in allegato a un magazine francese. L’album, che si chiamava “I’m your fan” e uscì nel 1991, non fu acquistato quasi da nessuno. Ma tra i pochi che lo comprarono (oltre a Malcom Gladwell, che ne parla nel suo podcast) ci fu una ragazza di Brooklyn di nome Janine. In quel periodo, Janine ospitava nel suo appartamento uno sconosciuto cantante di nome Jeff Buckley, con la faccia da surfista e la voce d’angelo. Jeff è figlio di Tim Buckley, il quale è anche lui una leggenda del rock (in questa storia si sprecano), un cantante sperimentale morto troppo giovane di overdose nel 1975. Un giorno Jeff vede “I’m your fan” in casa di Janine, lo ascolta e sente Hallelujah cantata da John Cale. Decide di farne una sua cover. La suona in un bar microscopico dell’East Village, dove per puro caso si trovava anche un dirigente della Columbia. Tempo pochi giorni e Jeff Buckley ha già firmato un contratto per il suo primo e unico album registrato in studio. “Grace”, uscito nel 1994, contiene anche l’arrangiamento di Hallelujah suonato da Jeff. E’ la sua versione definitiva e non è davvero una cover della canzone di Leonard Cohen. E’ una cover della cover di John Cale. Tutte le Hallelujah che verranno dopo, ha notato Gladwell, saranno cover della cover di Jeff Buckley della cover di John Cale.

 



 

Ma intorno ad Hallelujah c’è come una maledizione. Nel 1994, quando escono “Grace” e la sua versione miracolosa di Hallelujah, nessuno se ne accorge. L’album è un flop commerciale, la canzone non gira sulle radio, e sembra che la vena sotterranea che ha portato il brano di artista in artista si sia esaurita. Passano tre anni e ancora nessuno la conosce. E’ il 1997 quando un evento tragico cambia tutto. Jeff Buckley è inghiottito dalle acque di uno dei canali del Mississippi, a Memphis, mentre fa un bagno. Buckley svanisce, nessuno troverà il suo corpo, ma la commozione intorno alla sua morte prematura è così grande in America da generare un successo tardivo. Il pubblico e la critica riscoprono Buckley, riscoprono “Grace” e, infine, riscoprono Hallelujah. Le prime colonne sonore, le prime cover, appariranno all’inizio del millennio, oltre quindici anni dopo la pubblicazione della prima versione della canzone in “Various Positions”.

 

Oggi Hallelujah è una delle canzoni più abusate della storia. Il New York Times ha contato che almeno 200 artisti di fama hanno voluto produrre una loro cover della canzone, e di recente ha pubblicato un articolo in cui spiega, con video e argomentazioni, che la cultura pop ha ormai logorato il capolavoro di Cohen. Su Salon, nel 2012, David Daley chiese una “moratoria” contro l’“abuso criminale” di Hallelujah, ma prima ancora fu lo stesso Cohen, nel 2009, a chiedere di porre fine alla continua produzione di nuove cover: “Penso che sia una buona canzone, ma troppe persone la cantano”.

 

Ma Hallelujah rimane una testimonianza della qualità del genio di Leonard Cohen. Non solo perché è una canzone grandissima, ma perché tutta la sua opera è stata così, tormentata e riscritta e generosa. Come per Hallelujah, il successo per Cohen è arrivato in ritardo, a 33 anni, e alcune delle sue più grandi canzoni, da Suzanne a Bird on a Wire, furono rese note al grande pubblico inizialmente dalle cover di altri artisti celebri. E perfino Hallelujah, che oggi è considerata una preghiera lacrimevole, può essere ascoltata con orecchie nuove. In una dichiarazione celebre, Jeff Buckley disse che evidentemente la canzone riguardava “l’hallelujah dell’orgasmo”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.