David Lynch (foto LaPresse)

Ascoltare David Lynch è un'immersione nelle tenebre dove tutto è segno

Stefano Pistolini
L'album di un genio postmoderno, registrato l’anno scorso al concerto tenutosi all’Ace Hotel di Los Angeles per festeggiare il decimo anniversario della David Lynch Foundation. In scaletta una quantità di artisti che eseguono musiche scritte da David Lynch o da lui scelte per i suoi film e telefilm.

C’è qualcosa di David Lynch che lo spinge indietro nel tempo, dentro il XX secolo, tributandogli un indiscutibile status di classico, ma tenendoci lontani da lui, dalla sua visione, che conteneva già l’idea di “realtà aumentata”, come se le cose e le persone che avevamo intorno contenessero molto più del visibile, un universo-altro del quale è prudente tener conto, sebbene non sempre sia edificante. Siamo molto meglio e molto peggio di quel che sembriamo, filosofeggiava Lynch, solo le convenzioni e quella maledizione così americana del politicamente corretto ci costringono a mostrare la faccia più banale di cui disponiamo.

 

Lo chiamavano, se ricordate, postmoderno, e trapiantava nei settori frequentati dal vulcanico Lynch – il cinema e la tv, inizialmente – il desiderio di inoculare le folgorazioni e le controversie della pop culture nella materia metodologicamente strutturata della società dello spettacolo. Per quanto quest’ultima si affannasse a darsi regole di comportamento e a tracciare confini dentro i quali trasformare ogni cosa in intrattenimento, c’era chi non resisteva a rovesciare il tavolo delle trattative, e David Lynch era uno di costoro, e dei più attrezzati. E’ stata un’apparizione memorabile, segnata da episodi entrati nel ricordo condiviso, da “Eraserhead”, a “Blue Velvet”, da “Mulholland Drive” a “Lost Highways”, fino a quel trionfo del deplacement collettivo che fu “Twin Peaks”.  Poi tutto si è arenato, insabbiato. Come se Lynch, esaurito l’argomento, si fosse paralizzato, fosse rimasto inebetito davanti allo spettacolo del mondo che correva a tripla velocità e rendeva la sua immaginazione rapidamente datata, bella ma vecchia, non più suggestiva di una replica di “Happy Days”.

 

Lynch si è ritratto, ha rinunciato alla competizione e ha giudicato rappresentativi di sé i lavori che nel frattempo avevano acquisito uno status di archetipo, nella rappresentazione di una possibile psichedelia contemporanea. Quindi, con una prodigiosa piroetta, si è reinventato come musicista, sperimentatore fuori età, a cavallo tra rock alternativo, onirici echi country, rumorismi situazionisti, poesia e incubo. Ha pubblicato dischi, tenuto concerti, fatto proseliti, vecchi fan si sono risvegliati dal torpore e giovani ammiratori lo hanno scoperto, al cospetto di tanta deità disposta a rimettersi in gioco. Qualcuno ha visto con sospetto, perfino con fastidio questo exploit, ma i più curiosi sono stati a vedere a cosa portava il detour inventato da David, salvo sussultare con preoccupazione, quando si è sentito parlare di un imprevisto sequel di “Twin Peaks”.

 



 

Adesso è uscito un disco particolare, che racchiude l’inizio e la fine di questa vicenda: “The Music of David Lynch” è stato registrato l’anno scorso al concerto tenutosi all’Ace Hotel di Los Angeles per festeggiare il decimo anniversario della David Lynch Foundation. In scaletta una quantità di artisti che eseguono musiche scritte da David Lynch o da lui scelte per i suoi film e telefilm, tutti con un notevole grado di empatia e di sintonia con la visione con la quale Lynch trasfonde musica e immagini – ad esempio utilizzando evergreen di Elvis o di Roy Orbison e integrandoli nei suoi mondi, cogliendone i riverberi più sinistri ed inattesi delle loro canzoni. Nel disco si ascolta la cantautrice svedese Likke Li misurarsi senza timori con “Wicked Games”, Sky Ferreira proporre una versione quieta di “Blue Velvet”, Wayne Coyne e Steven Drozd dei Flaming Lips rielaborare musiche da “Eraserhead” e “The Elephant Man”, la cantante texana Chrysta Bell confezionare una versione aggressiva di “Swing with Me”, niente meno che i Duran Duran alle prese con “The Chaffeur” (restituendo il favore a Lynch che ha diretto lo streaming su YouTube di un loro concerto del 2012) e l’inossidabile Donovan che riprende la versione di “Love Me Tender” cantata in “Cuori Selvaggi” da Nicholas Cage.

 


 


 

Poi ci sono loro, David Lynch e Angelo Badalamenti, il suo alter ego musicale, il compositore che seppe comprendere e tradurre in colonne sonore quegli elementi bizzarri e torturati che formano la poetica del regista. L’ascolto è sorprendente per come rigenera, col solo potere dei suoni, l’universo surreale di Lynch e il suo complicato rapporto con la modernità. Si dice che vedere un film di Lynch sia come aggirarsi nei sogni di qualcun altro. Ascoltare la sua idea di suono, ora che ha sospeso il proprio rapporto con le immagini, suggerisce un’immersione nelle tenebre, dove le cose non sono quello che sembrano, ma la nostra capacità di vedere finisce per travalicare i poteri dei nostri occhi.

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