Lil Wayne (foto LaPresse)

Elogio di Lil Wayne, icona hip-hop che non cade nel clichè del nero pol. corr.

Giulia Pompili
Chiama i suoi fratelli “nigga”, negri, non si lamenta del razzismo in America, ringrazia i poliziotti bianchi e non attacca Trump. Infatti tutti vogliono boicottarlo. Chi è The Weezy, il rapper che non sale sul carro della retorica universale.

Lil Wayne è un rapper. Uno di quelli duri: palestrato, tatuato, i dreadlocks. Nero, è nato a New Orleans nel 1982, da una ragazza madre abbandonata dal compagno quando Wayne aveva soltanto due anni. Ha un tatuaggio dedicato a quello che lui considera il suo vero padre: Reginald McDonald, meglio noto come Rabbit, che fu rapito e ucciso alla fine degli anni Novanta, probabilmente da una gang criminale. Pure oggi che è miliardario, e ha vinto vari Grammy, ha venduto oltre cento milioni di dischi, Wayne chiama i suoi fratelli “nigga”, ed è amico di Jay-Z ed è considerato uno dei migliori imprenditori del settore hip-hop. Nel 2010 è stato condannato a otto mesi di reclusione per possesso illegale di armi da fuoco, ha scontato la sua pena nella prigione di Rikers island “trattato come qualunque altro carcerato”, ha detto una guardia a Mtv. Rikers island è nota per essere una delle prigioni più “brutali” d’America.

 

Wayne ha scritto un libro sulle sue prigioni, uscito pochi giorni fa per la Plume, divisione dell’editrice Penguin. In “Gone ‘Til November” racconta la vita quotidiana dietro le sbarre, piena di urla notturne e di quel “niente” che parla da solo. Baz Dreisinger sul Los Angeles Times ha scritto che si sarebbe aspettato di più, da un rapper che usa le parole per mestiere, ma anche solo la descrizione quotidiana in forma di diario di una vita alienante come quella a Rikers island, ha reso il musicista capace di denunciare molto più di quanto realmente volesse.

 

Per uno come Wayne, detto the Weezy, per uno che ha vissuto una vita come la sua, pieno di soldi, successi, e dolori; per uno che fa hip hop a quei livelli, sarebbe stato molto più facile saltare sul carro della retorica universale, sposare alcune battaglie del politicamente corretto americano, rendendo più facile la sua collocazione paracula tra gli artisti impegnati – una cosa che pure qui da noi va tanto di moda. Indossare, per esempio, la t-shirt di #BlackLivesMatter. E invece no. Durante un programma televisivo sportivo, a metà settembre, dove era ospite, il presentatore ha chiesto a Wayne di commentare il gesto del quarterback Colin Kaepernick che aveva protestato durante l’inno nazionale americano: “Durante il tuo ultimo concerto a New York, l’unico nero presente in platea era il tuo truccatore…”, ha detto il presentatore. “Pensavo fosse perfetto esempio del fatto che il razzismo non esiste. Insomma, il mio pubblico ha sempre rappresentato tutti”, ha risposto Wayne, aggiungendo poi di non aver mai vissuto personalmente dei veri attacchi di razzismo, e che “i millennial sono più progressisti, sanno che il razzismo non è cool”. Dopo quelle dichiarazioni, la stampa americana si è scatenata contro il re dell’hip hop. Kareem Abdul-Jabbar, ex stella dell’Nba, sul Washington Post ha chiesto addirittura il boicottaggio di Lil  Wayne. Su Twitter, è andata anche peggio.

 

Due giorni fa Wayne è stato costretto a spiegare le sue dichiarazioni all’Associated Press, senza però mai smentirsi. Ha raccontato di quando aveva dodici anni, e si è ferito accidentalmente con un’arma da fuoco: “Un poliziotto, ed era bianco come la neve, lui mi ha salvato la vita. Mi ha portato in ospedale e non mi ha mai lasciato da solo”. E poi, di nuovo, a Joe Coscarelli del New York Times: “Quando siamo andati fuori onda, il presentatore mi ha ringraziato per aver dato quella risposta, e per non aver usato il vittimismo”. Quando Coscarelli gli ha domandato di Donald Trump, a differenza di tanti colleghi Wayne ha evitato di politicizzare, ed è passato oltre: “Donald Trump, chi?”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.