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Cinquant'anni passati a chiedersi se Bob Dylan fosse cantautore o poeta. Ora il Nobel

Stefano Pistolini

Chirstopher Ricks, esimio professore di Oxford e stimato critico letterario, divenne l’alfiere della crociata per il riconoscimento del valore letterario dell’opera dylaniana. I detrattori sostenevano che però quelle non fossero altro che canzoni, che assumevano senso compiuto solo quando eseguite in musica, cantate.

Non aveva mai nascosto di tenerci, a questa sospirata legittimazione di grandezza che finalmente, con colpevole e snobistico ritardo, l’Accademia s’è degnata di concedere a Bob Dylan, insignendolo del Nobel per la Letteratura. La sua statura artistica da mezzo secolo non è in discussione (“la più influente figura culturale vivente” fu l’etichetta attribuitagli da “Newsweek” nel 2004), ma sulla questione del valore letterario delle sue liriche – diversamente considerate, a seconda delle scuole di pensiero, come autonome, oppure inscindibili dal fattore musicale – si è discusso a lungo per dirimere la questione se Dylan dovesse infine essere considerato prima un cantautore che un poeta, dal momento che di queste categorie il mondo culturale ufficiale sente ancora il bisogno, quando si tratta di mappare i percorsi storici.

 

Periodicamente lui stesso è intervenuto sul tema, al quale appunto col passare degli anni, attribuiva evidentemente un significato profondo, una specie di motivazione archetipa del percorso artistico che aveva invece costruito per istinto, connesso com’era al succedersi delle stagioni, degli eventi, degli ambienti di cui si sentiva partecipe. Nel 1965, quando il desiderio di provocare, se non di deridere, gli pareva irresistibile, in una conferenza stampa aveva mugugnato: “Penso a me stesso più come a un intrattenitore per canti e balli” e la cosa aveva fatto il suo effetto. Quando poi, col passare degli anni, il repertorio lirico di Dylan è divenuto uno dei più ricorrenti oggetti di analisi poetica da parte degli studiosi contemporanei (con tutto quel repertorio di rimandi che ne facevano una preda succulenta, se al suo interno era facile trovare tracce dei poeti elisabettiani e di Rimbaud, di James Joyce e di Balzac, di TS Eliot in gran quantità, per non parlare degli antichi compagni di nottate della beat generation) la questione è riemersa potente, coi suoi dischi che si succedevano sempre più sapienti e i suoi fans, ormai incanutiti, che pretendevano che i massimi riconoscimenti venissero recapitati al suo indirizzo.

 


 


 

Chirstopher Ricks, esimio professore di Oxford e stimato critico letterario, col saggio “Dylan’s Visions of Sin” divenne all’inizio del nuovo millennio l’alfiere della crociata per il riconoscimento del valore letterario dell’opera dylaniana, a suo parere paragonabile per qualità e portata a quella dei pesi massimi, da Keats a Tennyson. I detrattori sostenevano che però, in effetti, quelle non fossero altro che canzoni, che assumevano senso compiuto solo quando eseguite in musica, cantate, né più né meno di quanto si potesse osservare parlando delle composizioni di Woody Guthrie: meraviglie della musica americana, ma comunque canzoni, non poemi e per le quali era indispensabile, ad esempio, l’intervento della voce, anzi, di quella voce, con quei toni e quegli accenti che solo lui sapeva conferire. A conforto della tesi portavano l’idea che, quando si era trattato di esprimersi in poesia pura o in prosa creativa, com’era accaduto con la pubblicazione di “Tarantula”, il risultato era stato discutibile.

 

Dylan stava a guardare: in un’intervista scelse di darsi la qualifica di “cantastorie degli anni Sessanta”, attribuendo la prerogativa di “metafisiche” alle proprie liriche, ma non andando più in là. Aspettava, lasciava agli altri il giudizio. Eppure l’aspirazione era lì, lampante, l’idea poetica, anzi l’idea rivoluzionaria d’aver concepito una poesia musicale. “Il mio poeta preferito? Smokey Robinson” rispose un’altra volta alla solita domanda. Salvo correggersi in fretta: “no, no, è Rimbaud”.

 

In “I Shall Be Free No. 10” però cantava senza pudori: “Yippee! I’m a poet, and I know it”, sono un poeta e lo so. Tocca a voi dirlo. Adesso è arrivata la conferma che ne autorizza finalmente l’inclusione nelle antologie letterarie del XX e XXI secolo, dal momento che come ogni poeta, non smette di poetare mai. Per lui è sempre stato così, diamolo per assodato. Poco più che ventenne, nelle note di copertina di “The Freewheelin’ Bob Dylan” del 1963, già scriveva: “Quello che posso cantare per me è una canzone. Quello che non posso cantare è una poesia”.

 

Che voleva dire: so quello che sto facendo, ma non voglio dargli un nome. Quando sarà il momento, toccherà farlo a chi mi ha ascoltato.

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