Foto tratta dal trailer della serie

“Braindead”, la serie che racconta la morte cerebrale della politica

Massimiliano Trovato
Nell’epoca di Trump e della Clinton, del rinascimento populista, della manipolazione irreversibile, dell’imbarbarimento del confronto, la realtà ha già superato la finzione.

"E di 'Braindead' che mi dici?", spara a bruciapelo un amico, assiduo frequentatore di queste indagini foglianti sulla politica catodica. E tu gli regali un’espressione smarrita che rima perfettamente con il titolo della serie. Fai mente locale: ne hai sentito parlare: è il nuovo giocattolo dei King, genitori orfani della "brava moglie" Alicia Florrick. Il presupposto: una calata d’insetti alieni che si pappano il cervello di politici ed elettori nei dintorni del Campidoglio. Troppo poco per un’opinione. La recuperi in un pomeriggio ozioso di fine estate – facendo galoppare la riproduzione a velocità doppia – e sei pronto per il responso: serie balneare un po’ loffia, ma con qualche spunto d’interesse.

 

La trama ruota intorno a Laurel Healy, erede impolitica d’una dinastia democratica, che sospende la lavorazione di un imprescindibile documentario sui cori melanesiani e accetta un impiego temporaneo nella segreteria del fratello senatore. Da quella posizione privilegiata, assiste in prima fila alla diffusione del contagio. I millimetrici incursori – surfando sulle fioriture dei ciliegi – s’installano nei crani delle vittime e ne prendono possesso, costringendo gli esemplari infetti ad abbandonare l’alcool per certi intrugli salutisti, ad abbracciare le posizioni più radicali e ad orecchiare ovunque la canzone dei Cars “You Might Think”, presentata come un riarrangiamento della colonna sonora dell’universo.

 



 

La conseguenza più evidente dell’invasione è il rimescolamento delle fazioni ideologiche: all’opposizione tra democratici e repubblicani, subentra quella tra posseduti e risparmiati, con l’immancabile contorno di romanticherie across the aisle. Accade che – mentre Laurel fraternizza con il capo di gabinetto del leader repubblicano al Senato – il fratello Healy debba contrastare gli attacchi convergenti di antagonisti e compagni di partito su temi annosi come il terrorismo internazionale, la guerra in Siria e la tutela dei cuccioli di foca. La medesima dinamica si ripropone in seno alla base elettorale, man mano che l’infezione si propaga dalle gerarchie attraverso portaborse e militanti.

 

Né la società civile viene dipinta con toni più lusinghieri, divisa com’è tra guerrafondai sordi (i “One Wayers”) e buonisti incorreggibili (i “No Wayers”), che finiscono per riconoscere, gli uni negli altri, le rispettive frustrazioni. Forse inconsciamente, i King ripropongono molti dei tratti evidenziati da Eric Hoffer nella sua analisi psicopolitica dei movimenti di massa e del brodo di coltura del fanatismo. Per il tipo del “vero credente”, l’atto di credere e il senso di appartenenza che deriva dalla militanza sono più importanti dello specifico contenuto del credo, sicché non possono sorprendere, da un lato, la cospicua permeabilità degli schieramenti e, dall’altro, l’attitudine alla collaborazione distruttiva.

 

Come prevedibile, i sacerdoti del rito democratico hanno criticato la serie per la propria inclinazione qualunquistica. Sul Time, Daniel D’Addario ha parlato di uno spettacolo “tossico” che rigetta “l’idea di avere idee” e sostiene che “entrambi i partiti siano uguali e che scegliere tra l’uno e l’altro sia insensato”. Megan Garber, sull'Atlantic, ha criticato le pari opportunità del pessimismo e un racconto che, “denunciando tutti, non denuncia nessuno”. A noi pare, invece, che la serie non funzioni per il motivo opposto: nell’epoca di Trump e della Clinton, del rinascimento populista, della manipolazione irreversibile, dell’imbarbarimento del confronto, la realtà ha già superato la finzione di “Braindead”. C’è poco da ridere quando la satira riflette pigramente l’attualità, invece di esacerbarne i pericoli. E per uscire dallo schema della politica post-fattuale non basterà una botta di Raid.

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