Per Tom Wolfe le tesi di Darwin e Chomsky sono ambiziose, ambiziosissime, non s’accontentano di spiegare un fenomeno ma illuminano il noumeno che dà ragione di tutti i fenomeni specifici

E Wolfe bruciò Darwin

Così “Il regno del linguaggio” fa a pezzi l’evoluzionismo. Soprattutto quello di Noam Chomsky

All’apparire sullo scaffale dell’ennesimo libro di Tom Wolfe la domanda che sorge è: chi è questa volta la vittima sacrificale del suo sarcasmo? Chi finisce sulla graticola del giustiziere con la giacca bianca? I pacchiani mercanti d’arte del Miami Art Basel? I padroni dell’universo? Gli eunuchi di Wall Street? I benpensanti di Harvard? I nazisti dell’Illinois? Gli intellettuali liberal che dovevano espatriare definitivamente all’elezione di George W. Bush e alla fine, pur titubando e soffrendo, non si sono mai mossi dall’Upper West Side? Gli idoli polemici di “The Kingdom of Speech” sono più ambiziosi di tutti questi, appartengono addirittura al “consesso degli immortali”, tentare di volare più alto significa condannarsi a sbattere la testa contro il soffitto dell’olimpo: si tratta nientemeno che di Charles Darwin e Noam Chomsky.

 

Il legame fra i due è noto: “Nulla nella biologia ha senso se non alla luce della teoria dell’evoluzione”, scriveva il biologo Theodosius Dobzhansky negli anni Settanta, incoronando l’evoluzionismo non già come teoria valida e difendibile nel variopinto insieme delle teorie intorno alle origine della specie umana, ma come uber-teoria, infrastruttura teorica che delimitava i confini della legittimità di una proposta scientifica in merito alla biologia. Ogni altra teoria, dalla genetica di Mendel all’antropologia di Ian Tattersall, va rigorosamente sussunta e ricompresa in quella teoria dell’evoluzione che ha l’ambizione smisurata e onnicomprensiva di diventare una “teoria del tutto”. Altrimenti non esiste. Ciò che non è letto alla luce della teoria dell’evoluzione non ha senso, è la formula inversa del motto di Dobzhansky, e sembra di imbattersi in un derivato del “tutto ciò che è razionale è reale” di Hegel: tutto ciò che non è darwiniano non è reale, è un esecrabile residuo della storia della biologia. In questo senso, la “grammatica universale” di Chomsky è il massimo della realtà, poiché è il massimo dell’evoluzionismo, è il suo figlio più brillante e promettente dal momento che si cura di formulare un’ipotesi interpretativa attorno alla più complicata, inspiegabile, impenetrabile, peculiare, intricata e potente delle facoltà umane: il linguaggio.

 


Noam Chomsky


 

Wolfe dice che “presto il linguaggio verrà riconosciuto come il quarto regno della terra”: il regno degli animali, dei vegetali, dei minerali “e ora il regnum loquax, il regno della parola, abitato soltanto dall’homo loquax”. La capacità di parlare, organizzando il mondo in termini simbolici, è il grande vantaggio qualitativo dell’uomo sull’animale, il luogo intimo del suo trionfo. L’animale comunica, l’uomo parla. Senza linguaggio non ci sono numeri, non c’è passato né futuro, non esiste possibilità di panificare, di costruire, non c’è progressione tecnologica né accumulazione del sapere, non ci sono sogni né inferenze logiche, non c’è un rapporto compiuto, tridimensionale con la realtà perché nemmeno si riescono a mettere a fuoco le nozioni di spazio e tempo, non c’è il senso della durata ma soprattutto non esiste un “io”, un’autocoscienza che dà senso a tutte queste attività: “Il linguaggio, e soltanto il linguaggio, dà all’uomo la possibilità di farsi domande sulla propria vita, e anche di togliersela. Nessun animale si suicida”, scrive Wolfe.

 

Chomsky aveva risolto tutte queste cose già in giovane età, quando ha conferito stato di scienza hard a quell’incerto strumento di indagine che è la linguistica, rifondandola completamente attraverso l’idea che il linguaggio è una funzione innata e universale dell’uomo. La specie è dotata di un organo linguistico, collocato da qualche parte nel cervello, che ha struttura e funzionamento universali, si attiva in modi diversi e dà origine a molti idiomi differenti, ma non si tratta che di piccole varianti nel contesto di una sostanziale uniformità. Il venerato professore del Mit per decenni ha usato continuamente, ossessivamente l’esempio del linguista marziano che sbarca sulla terra e in quella che ai terrestri appare come una brulicante babele di lingue incompatibili sente soltanto diversi accenti o dialetti della stesso lingua, la lingua universale, impressa nelle strutture del cervello e che soltanto per secondari accidenti di tipo culturale e storico prende la forma dell’inglese o dello swahili. La sintassi ricorsiva garantisce l’universalità della grammatica umana, cosicché la teoria di Chomsky trova il suo posto d’onore all’interno della teoria del tutto darwiniana.

 

Alla luce della teoria dell’evoluzione, l’ipotesi innatista di Chomsky ha senso; e pazienza se le prove intorno alla natura, all’origine e alla fase evolutiva in cui questo organo linguistico ha fatto la sua comparsa sono vaghe o forse addirittura introvabili. E’ stato lo stesso Chomsky, accompagnato dal più autorevole consesso di firmatari sul tema, nel 2014 ad ammettere che: “Basandoci sullo stato attuale delle prove, sosteniamo che le domande fondamentali sull’origine e l’evoluzione della nostra capacità linguistica rimangono misteriose, con incertezze considerevoli intorno alla possibilità di scoprire evidenze rilevanti o conclusive che possano risolvere le molte ipotesi aperte”. L’articolo “The mystery of language evolution” è quello che “in una notte scintillante del 2016” ha attirato l’attenzione di Wolfe, il grande autore dalla curiosità onnivora che ha raccontato i vizi dell’élite, le stranezze della cultura popolare, i paradossi del mondo e dei suoi mondani abitanti; pur essendo un acrimonioso avversario della “conventional wisdom”, mai s’era avventurato in una disputa sull’evoluzionismo.

 

Chi dubita delle inclinazioni di questo homme de lettre per il metodo scientifico dovrebbe fare un salto alla New York Public Library, aprire i faldoni del suo archivio, estrarre una delle prima bozze del “Falò delle vanità” e guardare con attenzione negli angoli delle pagine. Si trovano proporzioni, calcoli di percentuali, divisioni fatte a mano con la cura di uno scolaro diligente: faceva di conto, Wolfe, per calcolare precisamente le commissioni che il suo antieroe Sherman McCoy e gli altri padroni dell’universo percepivano per le loro leggendarie transazioni. Wolfe ha letto l’articolo in cui i più grandi linguisti e antropologi del mondo ammettono di non sapere nulla del loro oggetto d’indagine, ma tuttavia non rigettano la teoria del tutto nella quale le loro più piccole teorie sono incastonate come brillanti in un anello, si è fatto alcune domande e ha scritto un saggio per trovare qualche risposta. La risposta fondamentale è che la super-teoria evoluzionista non spiega tutto, e soprattutto non spiega il linguaggio, che di questo tutto rappresenta tanto: “Dire che gli animali si sono evoluti nell’uomo è come dire che il marmo di Carrara si è evoluto e ha dato origine al David di Michelangelo”.

 

Dice quello: il gran scrittore s’è bevuto le teorie creazioniste e già che c’era s’è bevuto pure il cervello, per fare il bastian contrario s’atteggia a pastore battista del Mississippi, nel prossimo libro sosterrà che l’uomo non è mai stato sulla luna, che Obama è nato in Kenya, e magari perfino che Maria era vergine quando ha dato alla luce Gesù. Wolfe, invece, non ha abbracciato alcuna teoria creazionista. E’ ateo, com’è sempre stato, e ha una certa passione per la comprensione e il racconto della realtà, come ha sempre avuto. E per quanto concerne quell’immenso fulcro della realtà che è il linguaggio umano, trova che la teoria evoluzionista di Darwin e il contributo linguistico di uno dei suoi più brillanti pronipoti, Chomsky, stiano stretti. Le loro sono tesi ambiziose, ambiziosissime, non s’accontentano di spiegare un fenomeno ma illuminano il noumeno che dà ragione di tutti i fenomeni specifici: “Chomsky ha chiarito che stava elevando la linguistica all’altezza degli universali trascendenti ed eterni di Platone”.

 

Si scopre facilmente che lo scetticismo di Wolfe, atteggiamento che un tempo si sarebbe attribuito agli scienziati di stretta osservanza galileiana, fedeli al dato empirico e sospettosi verso il dogma, non è solitario. Qualche anno fa il filosofo Thomas Nagel, luminare dei processi cognitivi, degli studi sull’autocoscienza e del rapporto mente-corpo, in un saggio intitolato “Mind and Cosmos” ha osato criticare la validità dell’ipotesi materialista-darwiniana per spiegare qualunque fenomeno della realtà, pur senza trasformarsi nel solito pastore creazionista del Mississippi. Nagel era ateo e ateo è rimasto. L’“inquisizione neo-darwiniana”, come l’ha chiamata Leon Wieseltier, altro eterodosso difensore dei critici di Darwin, non gliel’ha perdonata, né avrebbe potuto: un conto è dissentire sulla pastorale darwiniana, un altro è negare il cuore del dogma. E il cuore del dogma è, appunto, il suo carattere dogmatico (esempio di sintassi ricorsiva perfetto per Chomsky).

 


Thomas Nagel


 

Steven Pinker, il cognitivista che di Chomsky è allievo e omologo, sulla sponda di Harvard, lo ha definito “lo scadente ragionamento di un pensatore un tempo grande”. Per il filosofo Daniel Dennett, Nagel si era mostrato finalmente per ciò che era: il membro di una “banda di retrogradi” il cui lavoro “non vale niente”. Per molti degli inquisitori, dogmatici nel loro scientismo, le critiche di Nagel non erano nemmeno degne di considerazione, perché cadevano al di fuori del campo della legittimità. Non essendo – né potendo essere – illuminate dalla teoria dell’evoluzione erano oscure, nulle, inesistenti. Chomsky aveva trattato allo stesso modo Daniel Everett, l’antropologo che nel mezzo dell’Amazzonia aveva scovato l’isolata e minuscola tribù dei Pirahã, che parla una lingua fatta di una decina di fonemi che non ha termini che indicano quantità, numeri, colori, senso del tempo, esibisce una sintassi non ricorsiva che non si conforma alla teoria universale di Chomsky, che con apodittica certezza classifica il linguaggio come potenzialità innata e senza distinzioni sostanziali fra una cultura e l’altra. Una sola tribù sul fiume Maici basta a mettere in crisi l’intero impianto innatista.

 

Sulla scoperta della lingua Pirahã, Everett ha fatto leva per sostenere la tesi del linguaggio come strumento culturale: un artefatto, come la punta di una freccia o un’architrave, un prodotto sofisticato che si costruisce nel tempo, per accumulazione di esperienze e rapporto con i dati naturali, non per semplice messa in atto di una potenza scritta da qualche parte nel cervello. “The Kingdom of Speech” è accomunato al lavoro di Nagel e di altri critici dell’evoluzionismo non tanto nelle conclusioni specifiche, quanto nella critica alla forma argomentativa su cui si concentra. Quello che Wolfe fa è dipingere, con le parole, una versione aggiornata della “Scuola di Atene” di Raffaello dove al posto di Platone c’è Darwin, circondato dal codazzo evoluzionista che segue il dito puntato verso l’alto, alla ricerca delle idee pure nell’iperuranio; mezzo passo dietro al maestro c’è Chomsky.

 


La "Scuola di Atene” di Raffaello


 

Dall’altro lato c’è la più sciancata e arruffata compagine di Aristotele, un agglomerato di “cacciatori di farfalle” dai nomi meno noti che con il dito puntato verso la terra si ostinano a cercare sul campo, nella realtà, quello che i loro avversari cercano soltanto negli uffici da cui non escono mai se non per andare all’aeroporto, dove prendono aerei che li portano in aule universitarie per ricevere lauree honoris causa. Il paradosso è che sono i professori con le camicie inamidate che non si staccano mai dal computer e non gli empiristi che s’immergono nella vita di tribù amazzoniche perdute a essere considerati i veri scienziati, quelli che hanno portato lo studio di un fenomeno a un grado di certezza e solidità superiore al precedente. Se l’idolo polemico primario di Wolfe è l’evoluzionismo, quello più remoto è profondo è il “cosmogonismo”, “la pulsione a rintracciare l’elusiva teoria del tutto, un’idea o narrazione che rivela che tutto nel mondo è parte di un singolo pattern”. Il cosmogonismo, il platonico dito puntato verso l’alto, è il peccato che accomuna Darwin e Chomsky.

 

La critica di Wolfe si articola su due livelli. Uno, più superficiale, mette a nudo i tic e gli istinti corporativi di due purissimi membri dell’establishment che sguazzavano nel consesso scientifico che contava nei rispettivi secoli, baronie lobbistiche che si proteggevano e si proteggono dando lustro alle tesi degli scienziati amici, alimentandosi per cooptazione, facendosi scudo con metodi paramafiosi tesi a innalzare i membri del clan e ad annichilire i cacciatori di farfalle senza pedigree. Darwin viene fuori come un “gentleman” che non ha mai avuto la necessità di lavorare un giorno in vita sua e che poteva contare sulla più incredibile macchina di pubbliche relazioni della storia della pubblicistica scientifica. Nel suo circolo si decideva chi pubblicava sulle riviste giuste e chi rimaneva nell’oscurità. Lo stesso vale per Chomsky, un rampollo della Harvard Society che ha brigato con infinita pervicacia per essere ammesso e poi osannato nella società scientifica che conta. In questo falò delle vanità accademico non è difficile simpatizzare per la sgangherata gang di Aristotele.

 

Ma a un livello più profondo la distinzione tracciata da Wolfe non è questione di ceto e status, ma fra cosmogonisti dogmatici e osservatori della realtà disposti ad accoglierne le contraddizioni senza soffocarle in una teoria del tutto. Com’era prevedibile, il conservatore Wolfe non ha parole gentili per il Chomsky politico, il consumato attivista anarcoide e anti capitalista che richiama gli intellettuali al loro ruolo di coscienza dolente dell’occidente affogato nei sensi di colpa. Chomsky si occupa di qualunque argomento, dal Vietnam all’11 settembre fino alla povertà e ai cambiamenti climatici, e forza discettare e lambiccare finisce che la colpa di ogni male è sempre dell’impero americano. E’ la sintassi ricorsiva di una grammatica politica universale. Caitlin Flanagan, che ha recensito sul New York Times “The Kingdom of Speech”, ha notato la doppia linea di attacco al Chomsky linguista e al Chomsky attivista, ma s’è persa lungo la strada il comune denominatore: “L’attacco di Wolfe a Chomsky – che lui chiama Noam Charisma – è preciso, feroce e non immeritato. Ma che cosa c’entra questo, Signore, con la questione del linguaggio? Pochissimo, grazie a Dio”. Ma il Chomsky che con il dito puntato verso il cielo cerca teorie politiche assolute e indistruttibili per spiegare chi governa il mondo e perché è lo stesso che conia teorie linguistiche assolute e indistruttibili per spiegare perché e come l’uomo parla.

Di più su questi argomenti: