Il falò delle vanità evoluzioniste

Giulio Meotti

Tom Wolfe fa a pezzi “Charlie” Darwin: “Non ci ha spiegato perché siamo i soli a parlare”. Il grande scrittore americano smonta un altro tabù: “E’ il linguaggio, non l’evoluzione, il responsabile del progresso umano”

Roma. Un tempo coccolato da tutti, Tom Wolfe venne evitato e temuto da quando, proditoriamente, assalì il mondo dell’arte, con un libro allegramente intitolato “II mondo dipinto”, che fece saltare in aria mezza Madison Avenue, nella rabbia di pittori e critici, galleristi e collezionisti. “Se non te la prendi con qualcuno, non saprai mai se sei vivo la mattina dopo quando ti svegli”, aveva detto il romanziere al Guardian nel 2004. A 85 anni, Tom Wolfe, il padre del new journalism, ha ancora voglia di prendersela con qualcosa e qualcuno. Il suo libro sull’architettura, “From Bauhaus to Our House”, spinse Robert Hughes a concludere che Wolfe nutre una sorta di “ostilità verso gli intellettuali”. In “Stalking the Billion-Footed Beast” (1989), Wolfe prese per i fondelli l’establishment letterario. Prima ancora c’erano stati i “Radical Chic” incontrati a casa del musicista Leonard Bernstein.

 


Tom Wolfe


 

Stavolta, con il ritorno alla saggistica dopo sedici anni, Tom Wolfe l’ha fatta grossa. Se l’è presa con Charles Darwin (“Charlie” per lui) e con i suoi epigoni neoevoluzionisti, in un libro sensazionale dal titolo “The Kingdom of Speech”, in cui Wolfe definisce l’evoluzione darwiniana “questa supposizione disordinata, paludosa, fradicia che perde da ogni parte”. Wolfe non attacca l’evoluzione per motivi religiosi; lui è un ateo libertino impenitente. Wolfe inizia dichiarando che il Big Bang è “vagamente ridicolo”, e lo paragona a una favola mitopoietica. Tutto è venuto dal nulla? Ma dai, non scherziamo. Come pezza di appoggio, Wolfe si avvale di una nuova ricerca dell’antropologo Daniel Everett, secondo il quale il potere della parola non è il prodotto dell’evoluzione, ma uno strumento creato dall’uomo e con l’uomo. Wolfe attacca Noam Chomsky, che ha dominato la linguistica avanzando la teoria che la parola derivi da un organo fisico universale.

 

L’idea del libro a Wolfe è venuta una notte, quando stava al computer, e in una rivista accademica lesse un articolo dal titolo “The Mystery of Language Evolution”, in cui otto fra i maggiori linguisti del mondo concludono che resta un mistero inafferrabile quello che divide l’umanità dal resto del regno animale, vale a dire il linguaggio. “C’è una distinzione cardinale tra uomo e animale”, scrive Wolfe. “Che cosa c’è”, chiede, “che ha lasciato infinite generazioni di accademici e geni certificati assolutamente sconcertati quando si tratta del linguaggio?”. A malapena il darwinismo ci ha spiegato perché siamo i soli bipedi, figuriamoci perché siamo i soli a proferire parola. Darwin stesso paragonava il linguaggio umano ai “suoni emessi dagli uccelli”. “Centocinquanta anni da quando la teoria dell’evoluzione è stata annunciata e non hanno imparato… niente… Mentre Einstein scopriva la velocità della luce e la relatività… Mentre Pasteur scopriva che i microrganismi, in particolare i batteri, causano un certo numero di malattie… Mentre Watson e Crick scoprivano il Dna… In centocinquant’anni linguisti, biologi, antropologi, e persone provenienti da ogni altra disciplina non hanno scoperto niente sul linguaggio”.

 

Invece è proprio il linguaggio a fare la differenza. “Il linguaggio è il 95 per cento di ciò che eleva l’uomo al di sopra degli animali”, scrive Wolfe. “Fisicamente, l’uomo è un triste caso. I suoi denti, compresi gli incisivi, hanno dimensioni da bambino e riescono a malapena a penetrare una mela verde. I suoi artigli non servono a nulla. Il suo corpo lo rende debole rispetto a tutti gli animali. Eppure, l’uomo possiede una superpotenza: il linguaggio”. E ancora: “Il linguaggio, e solo il linguaggio, ha permesso alle bestie umane di conquistare ogni pollice quadrato di terra in tutto il mondo, sottomettere ogni creatura abbastanza grande su cui posare gli occhi e mangiarsi la metà della popolazione marina. Il grande risultato è stata la creazione di un sé interno, un ego”. E’ questo il grande tabù violato da questo scrittore vestito di bianco immacolato: “E’ il linguaggio, non l’evoluzione, il responsabile del progresso umano”. Divino. Come quando ebbe l’ardire di dichiarare davanti a tutti che aveva votato per George W. Bush a una cena di liberal newyorchesi: “Se tutto fallisce, potete votare Bush”. I presenti lo guardarono come se avesse detto: “Oh, mi sono dimenticato di dirvi che molesto i bambini”. E lui: “Voterei per Bush per la sola ragione di trovarmi all’aeroporto a salutare tutte le persone che hanno detto che sarebbero andate a Londra se lui avesse vinto ancora. Qualcuno dovrà pur rimanere”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.