Paradosso: la tecnologia elimina i mediatori culturali con i nuovi media

Alfonso Berardinelli
Già, che cos’è il sapere? Non è certo un blocco unico di materia omogenea. Una cosa è una notizia, una tabella statistica, una cosa diversa sono un’opera filosofica, una sinfonia. Il guaio arriva quando si mette tutto sullo stesso piano. Ma con le abitudini cambiano anche l’intensità e la qualità dell’attenzione, dell’investimento emotivo e mentale.

Marino Sinibaldi, da anni direttore di Radio 3 e oggi anche alla guida di “Libri come” per l’Auditorium di Roma, ben noto e attivissimo mediatore di cultura, credo proprio che abbia avuto tutte le ragioni e tutto il tempo per riflettere sul suo mestiere. Purtroppo non lessi, due anni fa, la sua “Intervista sulla cultura” uscita da Laterza a cura di Giorgio Zanchini. Apprendo perciò solo ora dal libro dello stesso Zanchini “Leggere, cosa e come. Il giornalismo e l’informazione culturale nell’era della rete” (Donzelli, 168 pp., 19 euro) che Sinibaldi, benché indubbiamente mediatore, è giunto alla conclusione che dei mediatori di cultura si può fare a meno.

 

Sulla questione Zanchini mi sembra più oscillante di Sinibaldi. Ma infine chi non ha dubbi sul presente e sul futuro della trasmissione dell’informazione e del sapere? Il dubbio è ovviamente questo: è meglio (è più aperto, più libero, più egualitario, perfino più creativo) il trionfale disordine dei social media con l’“accesso diretto e immediato” a tutto l’immenso accumulo di dati, idee, valutazioni e liberissime chiacchiere, o è meglio valutare e selezionare, cioè intellettualmente mediare e filtrare una tale indiscriminata materia? Il libro di Zanchini contiene tutti i dati per farsi un’idea della questione e infine mi sembra assai equilibrato: non nel senso che si tiene prudentemente a metà strada, ma sceglie piuttosto di illustrare con numeri e riflessioni ora il bello del nuovo che avanza, ora l’utile di qualche saggia procedura tradizionale che resista allo strapotere e alla supervelocità delle stupefacenti macchine. Anche i nuovi media continuano a chiamarsi “media” e ci sarà una ragione. Se pretendono e promettono di saltare ogni mediazione trasmettendo del tutto liberamente, senza pregiudizi né giudizi, tutto a tutti, instaurano comunque una forma di mediazione, che viene subito voglia di denominare “mediazione dell’immediato”: o meglio ancora, moltiplicazione istantanea della mediazione a opera di chiunque e a proposito di qualunque cosa.

 

“Il numero di nuovi attori digitali e di sperimentazione”, dice Zanchini, “è così alto, così vario, da essere difficile da seguire, e lo sviluppo tecnologico non mostra segni di rallentamento”. Ogni elogio della lentezza, di moda anni fa, sembra perciò un tradizionalismo e un anacronismo. Il fatto è che gli esseri umani, come mostrano sia l’alto consumo di tranquillanti e psicofarmaci, sia la diffusione delle psicoterapie e di guru di ogni specie, sono macchine complicate e sensibili, con una loro fisiologia nervosa, una loro psicologia, una straordinaria e forse preziosa varietà di modi individuali di acquisire, assorbire, usare il sapere.

 

Già, che cos’è il sapere? Non è certo un blocco unico di materia omogenea. Una cosa è una notizia, una tabella statistica, un reportage, una cosa diversa sono un’opera filosofica, un romanzo, una sinfonia. Il guaio arriva quando si mette tutto sullo stesso piano. Si può consultare in rete un dizionario, credo invece che sia meno consigliabile provare a leggere l’“Orlando furioso”, “Guerra e pace” o la “Recherche” su un tablet, solo perché è facile visualizzare queste opere pagina per pagina. Senza dubbio si possono cambiare le proprie abitudini di lettura. Solo che con le abitudini cambiano anche l’intensità e la qualità dell’attenzione, dell’investimento emotivo e mentale.


Un’opera come quelle citate è un tutto, non un’insieme di pagine: averle davanti fisicamente come un tutto rende meglio l’idea di un insieme unitario e complesso che esige da noi un investimento di tempo e di volontà adeguato.
L’inusitata disponibilità “ad libitum” e “on demand” di sterminate biblioteche per via digitale trasmette una sensazione di ubiquità, di padronanza e di possesso più illusoria che reale. Una cosa sono le possibilità e un’altra cosa è la realtà. Immaginare gli effetti a lungo termine delle nuove tecnologie sulle facoltà mentali, sul sistema nervoso e sul comportamento, non significa essere conservatori, significa prestare attenzione alle cose come sono.

 

Mai nessun medium di massa è stato così di massa né è stato considerato e praticato come altrettanto indispensabile, piacevole, liberatorio. I nuovi media promettono di eliminare mediazioni e mediatori, ma sono loro a mediare tutto. Fra noi e la realtà esterna o mentale c’è sempre ormai una macchina informatica, veloce, comoda, portatile e superdotata di funzioni: una protesi permanente della nostra attività mentale e della nostra socialità. Intendiamoci: i problemi, se ci saranno e verranno percepiti come tali, non riguardano chi è nato quattro, sei o più decenni fa,  riguardano i nativi digitali, per i quali il libro è stato fin dall’inizio un oggetto secondario, remoto e poco appetibile. Saranno loro a giudicare che cosa è avvenuto con queste trasformazioni della cultura e della comunicazione umana. Coloro che invece sono cresciuti maneggiando, leggendo, accumulando e amando i libri, possono regolarsi secondo le proprie personali preferenze e manie. Cambiare le proprie abitudini private può essere una necessità storica e pratica, ma non è esattamente un dovere.

 

Pur essendo un po’ più pessimista sul futuro di quanto lo sia Zanchini, posso condividere molti dei dubbi conclusivi del suo libro. Mi sembrano però più interessanti, perché sempre più rare, le riserve critiche dei cosiddetti “tardoumanisti” che non le espressioni di giubilo dei “tecnoentusiasti”, pubblicitari involontari che non smettono di ringraziare l’industria informatica perché finalmente ha “cambiato loro la vita” (espressione che trovo agghiacciante). Se con i libri e giornali in mano soffrivano tanto, peggio per loro. Quanto ai “mediatori” intesi come casta e gerarchia, e agli intellettuali come categoria, gruppo e corporazione, è da tempo che li giudico male e poco li sopporto. E’ noto del resto che già Kierkegaard, un secolo e mezzo fa, diceva di odiarli. Nessuno deve godere di un’autorità intellettuale e morale garantita istituzionalmente (e in sostanza burocraticamente). Ognuno è libero (diciamo così) di leggere e pensare quello che vuole. Resta il fatto che qualcuno può essere, per passione ed esperienza, più competente di qualcun altro e che la qualità, il valore di ogni prodotto di cultura, si tratti di un testo scritto, di un’opera d’arte, di una gara sportiva o di una zuppa di fagioli, merita un giudizio. L’uguaglianza non dovrebbe voler dire che una cosa vale l’altra. La libertà garantita per legge di dire stupidaggini non dovrebbe impedirci di considerarle stupidaggini.

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