Il chitarrista venezuelano Alirio Díaz

Alirio Díaz, la chitarra che dal Venezuela conquistò il mondo della musica

Stefano Picciano
Sabato a Roma i funerali del grande maestro campesino, tra più noti e amati di sempre. Dal Sud America era partito per la Spagna per poi trasferirsi nella capitale. Dal suo strumento usciva una carrellata di immagini e nostalgie venezuelane: le musiche della sua terra, che costituiscono il cuore della sua opera di trascrittore e arrangiatore.

Un piccolo villaggio dell'entroterra venezuelano, circondato dal deserto. 6 settembre1939. Le prime luci dell'alba si affacciano all'orizzonte, le case sono ancora immerse nel sonno. Un ragazzo scende dal letto, raccoglie con cura le sue poche cose, attraversa silenziosamente il corridoio ed esce; si incammina, portando come unico bagaglio una grossa scatola di cartone piena di oggetti apparentemente di scarso valore: pagine di giornale, mappe geografiche, fotografie. Povere cose, ma che già sono indizi di una personalità piena di curiosità e desiderio di conoscere. Muove i suoi passi verso Carora, il capoluogo della regione. E’ l’inizio di una grande avventura umana.

 

Quel giovane è Alirio Díaz, il campesino venezuelano che diverrà uno dei più illustri maestri del ‘900. E che dagli anni cinquanta, innamorato dell’Italia, farà di Roma la sua città.

 

Il mondo della musica è commosso per la scomparsa di uno dei maestri della chitarra più noti e amati di sempre, protagonista di uno straordinario itinerario artistico. Itinerario che inizia lì, nel piccolo villaggio chiamato La Candelaria – una manciata di povere case in mezzo al deserto – dove Díaz nasce il 12 novembre 1923. Un contesto segnato da condizioni difficili, nel quale gli uomini con tenace volontà coltivano la terra – per lo più arida e dura –, e il tenore umile ed essenziale della vita si accompagna a indigenze e sacrifici. Ma è proprio in quell'ambiente che Díaz, nei primi sedici anni della sua vita, riceve ciò che più di ogni altra cosa lo avrebbe segnato: un ottimismo per così dire ontologico, una posizione di apertura e fiducia nella realtà, una grande passione per la bellezza. Alle difficili condizioni di vita, infatti – segnate allora da estrema povertà e malattie – si contrappone in quell'ambiente la ricchezza umana di persone sempre inclini alla gioia, alla festa, espressione semplice e spontanea di chi riconosce che la vita è dura, ma c'è. Il popolo avrà, in Díaz, un ruolo educativo decisivo, che il maestro non dimenticherà mai. "Non avrei potuto chiedere alla mia infanzia, ai miei paesi e alla mia gente un migliore substrato culturale, musicale e umano", avrebbe scritto molti anni più tardi.

 

 

La musica, in quel contesto, è una sorta di alimento “spirituale”, risuona in tutte le case del villaggio. Nessuna scuola, ma tutto accade come per osmosi. "Nel mio povero villaggio – mi disse una volta – la musica era, per così dire, indispensabile, inseparabile dalla vita di tutte le famiglie del paese. A casa mia, poi, era proprio un pane quotidiano". Ben presto i coetanei notano in lui capacità non comuni: "Fa parlare la chitarra", dicono.

 

In un contesto dove i libri erano una rarità e l’analfabetismo diffuso, Alirio impara a leggere, si interessa ad ogni testo che gli capiti tra le mani, trascorrendo le ore notturne al lume di una candela (qui subito redarguito dal padre, preoccupato per la sicurezza della casa di legno e paglia); durante il lavoro quotidiano, mentre si occupa delle bestie, si abitua a ripetere a memoria versi della Divina Commedia, citazioni dei grandi filosofi, poesie.

 

Fino a quel mattino di settembre in cui, vedendo i suoi coetanei accettare le uniche condizioni lavorative che il luogo allora poteva offrire – per lo più nei campi o nei pozzi petroliferi della zona – fugge di casa. Lo fa, certo, per evitare la sorte che le circostanze di allora riservavano ai giovani; ma fugge, ancor più, per una lealtà originale, incapace di compromessi, con i suoi stessi desideri: "Io non volevo petrolio, io volevo cultura, educazione".

 

Giunge dunque a Carora, dove il sedicenne – lo raccontava lui stesso divertito – senza esitazione va a bussare al Palazzo del Governo con lo scopo di richiedere una borsa di studio ("Immaginate, io, un contadino che non sapeva neanche parlare!…"). Viene in seguito trasferito a Trujillo, poi a Caracas, dove approfondisce gli studi, e nel 1950 sorvola l’oceano e si stabilisce a Madrid. Giunto in Italia, Díaz frequenta i corsi del grande Andrés Segovia all'Accademia Chigiana di Siena che lo sceglie come suo assistente: "E' stato il diploma della mia vita", affermava Díaz, parlandone. Raccoglie in questi anni i primi successi di una carriera che è assai arduo riassumere. Conosce i maggiori musicisti e compositori del nostro tempo, diviene amico di Sergiu Celibidache, Alfred Cortot, Leopold Stokowsky, Pablo Casals, Joaquin Rodrigo, per citarne solo alcuni.

 

 

Una grande carriera che sempre il Maestro coniugò a una grande semplicità, come sa bene chi ha potuto frequentare le sue lezioni. Díaz parlava in modo semplice, senza imporre la sua visione ma quasi suggerendola, con discrezione. Valorizzava sempre l'esecuzione dell'allievo, ma al contempo era tutto teso ad arricchirla di ciò che ancora vi mancava, entusiasmandosi, poi, man mano che vi riusciva. Si poneva di fronte a ogni brano considerandolo un capolavoro, e così – straordinario insegnamento che conduce a cogliere la bellezza di ogni cosa – riusciva a metterne in luce tutta la profondità, lo spessore: accadeva, così, che brani suonati per anni acquistassero d’un tratto inedita pregnanza e novità. Appariva instancabile, capace di trascorrere l'intera lezione su poche note, perché di fronte a una bellezza, quella musicale, che non si esaurisce mai. C’era una dedizione al particolare, perché – insisteva, citando Mahler – "nello spartito è scritto tutto tranne l'essenziale".

 

Poi, a volte, Díaz prendeva in mano la chitarra e – senza aggiungere altro – incominciava a suonare. Era il momento più atteso, gli allievi si sedevano attorno a lui, protesi a cogliere il più possibile della privilegiata circostanza. Ecco emergere allora dalla sua chitarra una carrellata di immagini e nostalgie venezuelane: le musiche della sua terra, che costituiscono il cuore della sua opera di trascrittore e arrangiatore. Non che l'inizio della carriera internazionale abbia infatti comportato un allontanamento di Díaz dalle proprie origini; pare anzi, al contrario, che la lontananza fisica dal suo paese ne abbia resa più intensa la vicinanza spirituale. Consapevole dell'importanza del canto popolare – da sempre una sorta di custode della più intima coscienza umana –  Díaz portò sulle corde della chitarra le melodie della sua terra, nobilitandole e rivestendole di nuovo splendore: ne nacquero dei gioielli musicali, che mantenendo la sensibilità popolare la racchiudono in una raffinata cornice armonica. E' qui che si colloca l’originalità stessa della sua figura di artista: il rapporto tra spontaneità popolare, col suo ricco repertorio di canti, e “genio” artistico che ripropone quel repertorio nel linguaggio maturo dell’arte. "Qui si 'stringono la mano' ciò che è accademico e ciò che è popolare", mi disse un giorno il maestro.

 

Nulla, delle origini, era stato abbandonato; il tempo semmai aveva accresciuto in lui la gratitudine e l’appartenenza al suo popolo. Poiché – come scrisse lui stesso – "un uomo non può dimenticare la sua anima". Né gli altri uomini – si potrebbe oggi aggiungere – potranno dimenticare la propria gratitudine verso questo maestro della musica, che al cuore di tanti ha saputo portare la bellezza dell'arte.

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