Elie Wiesel (foto LaPresse)

Wiesel sapeva che senza Israele non si può combattere l'antisemitismo

Antonio Donno
Addio al Nobel per la Pace. Wiesel è stato tetragono nel difendere lo Stato degli ebrei di fronte ai suoi più accaniti critici, agli antisemiti di destra ma soprattutto di sinistra, ai sostenitori delle “buone” ragioni dei terroristi, da Hamas alla Jihad islamica, fino gli Hezbollah filo-iraniani.

Elie Wiesel è stato un difensore dei diritti di Israele senza se e senza ma. E’ stato autore di romanzi splendidi, tra i quali l’indimenticabile “La notte”, ha girato il mondo per parlare della Shoah, ha ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 1982, è stato il protagonista di mille battaglie per la giustizia, ma la sua vita era per Israele. E’ stato tetragono nel difendere lo Stato degli ebrei di fronte ai suoi più accaniti critici, agli antisemiti di destra ma soprattutto di sinistra, ai sostenitori delle “buone” ragioni dei terroristi, da Hamas alla Jihad islamica, fino gli Hezbollah filo-iraniani; e ai politici occidentali, proni di fronte alle prepotenze e ai ricatti islamici. Quando, nel 1975, una risoluzione delle Nazioni Unite equiparò il sionismo al razzismo – uno degli esempi più osceni di antisemitismo – Wiesel, pieno d’orrore, scrisse: “Non è la prima volta che il nemico ci imputa i delitti di cui egli stesso è colpevole. Si mettevano le mani sui nostri beni, e ci trattavano da avari; massacravano i nostri bambini, e ci accusavano di infanticidio. Per indebolirci, si cercava di colpevolizzarci. Per condizionarci, si tentava di deformare l’immagine che avevamo di noi stessi. No, il procedimento non è nuovo”. Ed è ancora in piena attività, oggi, come non mai.

 

Il richiamo di Wiesel allora è ancor più valido – e necessario – oggi: “I nostri amici non-ebrei dovrebbero […] rivendicare il sionismo come un onore”. In “Un juif aujourd’hui”, del 1977, Wiesel poneva la questione fondamentale, di un’attualità sconcertante: c’è posto per gli ebrei nel mondo? Nella Germania pre-nazista i tedeschi dicevano di avercela solo con gli ebrei polacchi, perché non volevano assimilarsi; in Francia, i francesi dicevano di avercela solo con gli ebrei tedeschi, perché erano troppo assimilati. E così via, in una serie ininterrotta di falsificazioni. “Tutto falso – scrive Wiesel – e ora lo sappiamo. Si trattava sempre e ovunque di noi tutti”. Oggi è come allora. Più di allora.

 

Il problema è, dunque, e Wiesel ben lo sapeva, che l’antisemitismo non fa distinzioni di condizione sociale, nazionalità, età. Sembra quasi che l’antisemita conosca e condivida, per i suoi fini persecutori, i versi di “Ani maamin”, l’incipit del dodicesimo dei tredici Principi della Fede di Mosè Maimonide: “Essere ebrei è credere / In ciò che ci lega / L’uno all’altro, e tutti in Abramo”. L’antisemitismo non conosce stagioni, situazioni, differenze. L’attuale, dilagante antisemitismo non ne è forse la prova? Wiesel ripeteva negli ultimi tempi che l’Europa ha dimenticato gli orrori contro gli ebrei di cui è stata artefice nel passato e sembra che non se ne vergogni.

 

Ecco perché Wiesel è stato un bastione del diritto di Israele all’esistenza: “Ora sappiamo – scrive – a che cosa aggrapparci: Israele rimane unito. Chi s’oppone a Israele, si mette contro tutto il popolo ebraico”. Tutti gli ebrei, nei secoli, hanno sperato di ritrovarsi “l’anno prossimo a Gerusalemme”, ma nessuno ci credeva. “Se qualcuno mi avesse detto un tempo – scrive Wiesel in “Credere o non credere” – nella mia infanzia, che in vita mia avrei visto la risurrezione di uno Stato ebraico libero e sovrano, non l’avrei creduto”. E’ stato così nel 1948; e da quel momento Wiesel non ha ceduto di un solo millimetro nella difesa di Israele. Anche quando, come si è accennato, le Nazioni Unite votarono la famosa, orribile risoluzione. Poi venne lo spettacolo più indecente, scrive Wiesel: “Appaiono già segni inquietanti. Il nauseante spettacolo di un’assemblea internazionale in delirio che accoglie in festa un portavoce del terrore”. Il riferimento era ad Arafat, ovvio.

 

Fu da quel momento che Wiesel cominciò ad avere paura per Israele, come scrive sempre in “Un juif aujourd’hui”. Ai suoi tempi, Hitler propose una soluzione finale, mentre il mondo voltava lo sguardo dall’altra parte. Oggi, invece, lo spettacolo dell’antisemitismo è palese e gratuito. Di fronte a questa realtà, Wiesel ha sempre sostenuto che il popolo ebraico e Israele dovessero più che mai essere convinti che la loro storia sfiderà i secoli. Dopo la guerra del 1973, Wiesel, osservando la vita in Israele, scrisse con orgoglio: “Attraverso un mondo in effervescenza, giovani ebrei parlanti ogni lingua e usciti da ogni classe sociale partecipano ora alla stessa avventura rappresentata ai loro occhi dall’ebraismo. Un fenomeno, questo, che raggiunge il suo culmine in Israele”. Oggi questo è ancor più vero.

 

Il 18 aprile 2010 Wiesel indirizzò una lettera ad Obama, in cui affermava che Gerusalemme è così parte di Israele da essere al di là della politica. Gerusalemme è menzionata seicento volte nelle Scritture, scriveva Wiesel, ma nessuna nel Corano. Ma Obama è culturalmente troppo distante da Wiesel per comprendere il significato della sua lettera. Il 3 marzo di quest’anno, quasi a chiusura della sua stagione terrena, Wiesel ha sostenuto senza indugi il discorso tenuto da Netanyahu al Congresso americano. Un’ultima prova di fedeltà a Israele.