Alessandro Sallusti (foto LaPresse)

L'importanza di leggere il Mein Kampf

Redazione
Tutti contro il Giornale che porta in edicola il manifesto del nazismo. Ma il vero dramma di quel libro fu che non lo lesse nessuno, tantomeno le élite

«Mannaggia il giorno che m’è venuta quest’idea...» (Alessandro Sallusti). L’idea del direttore del Giornale è stata quella di allegare al quotidiano, per «decine di migliaia di copie», il Mein Kampf, il libro scritto da Adolf Hitler considerato il manifesto del nazismo [1].

 

«Siamo rimasti sorpresi dalla decisione de il Giornale. Se ce lo avessero chiesto, avremmo consigliato loro di distribuire libri molto più adeguati per studiare e capire la Shoah» (ambasciata d’Israele a Roma). «Operazione indecente» (Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane). «Che qualcuno abbia pensato di usare il Mein Kampf per accrescere le vendite è un fatto senza precedenti» (Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme). E poi ancora: «Squallido, mai più» (Matteo Renzi), «Decisione grave, la memoria merita rispetto» (Laura Boldrini), «Uno scandalo totale, sono esterrefatto e disgustato» (Giuseppe Sala), «Squallido e indecente riesumare persino Hitler per strizzare l’occhio all’estrema destra nelle città al voto» (Piero Fassino) [2].

 

Sallusti: «Non è un’operazione elettorale. Su una tragedia simile non si gioca, semmai è il contrario. Con certi venticelli che soffiano qua e là in Europa e in Medio Oriente, serve capire dove si annida il male per non ripetere un errore fatale» [2].

 

Churchill lo definì «il Corano della fede e della guerra». Fu ispirato, come ammise lo stesso Hitler, dal libro L’ebreo internazionale (1920), opera dell’industriale Henry Ford in 4 volumi dai toni antisemiti. Scritto durante la detenzione nel carcere di Landsberg per la condanna dopo un colpo di stato fallito, il Mein Kampf (La mia battaglia) fu pubblicato in due volumi tra il luglio del 1925 e il 1926 e all’inizio fu tutt’altro che un successo [3].

 

La casa editrice Franz Eher-Verlag lo mise in circolazione con un prezzo impegnativo, 12 marchi. Nel 1929 il primo volume aveva venduto 23 mila copie, mentre il secondo raggiungeva le 13 mila. Un punto di partenza che s’intreccia con il percorso dei successi del partito, con l’ampliamento dei consensi e dei potenziali sostenitori. Tra il 1930 e il 1932 le copie diventano 80 mila. Con la presa del potere, l’anno successivo viene superato il milione e mezzo di copie. Una marcia inarrestabile: dal 1936 viene predisposta la versione braille per i non vedenti e ogni coppia di sposi riceve in dono un volume in versione rilegata. Nel tornante conclusivo della Seconda guerra mondiale le tirature e le vendite superano i 10 milioni di copie, senza contare la diffusione all’estero grazie alle 16 lingue in cui venne tradotto [4].

 

Gentiloni: «I biografi di Hitler da tempo hanno ricostruito che in molti misero le mani sul manoscritto per renderlo leggibile e presentabile, depurandolo tra l’altro da errori grammaticali e ripetizioni ricorrenti. L’autore stesso non mancò di ridimensionarne la natura fino a condurla a un insieme di articoli o contributi sporadici. E tuttavia quelle pagine contribuirono a incendiare l’Europa negli anni tra le due guerre.  [...] Il nucleo delle idee portanti è noto: la razza come chiave di lettura delle stratificazioni sociali, lo spazio vitale come orizzonte e frontiera di ogni conquista necessaria, la violenza del più forte come esercizio di identità rinnovate, la dittatura come approdo di un progetto di trasformazione. Il significato del libro nel dibattito tra gli studiosi ha oscillato tra due estremi: una piattaforma ideologica che contiene le premesse dell’ascesa successiva o al contrario uno scritto marginale che non merita particolari attenzioni» [4].

 

In Italia la prima edizione (abbreviata rispetto all’originale) è del 1934 per i tipi di Bompiani. Prima dell’edizione allegata al Giornale era stato ripubblicato diverse volte, tra cui una a cura del politologo Giorgio Galli per Kaos edizioni [5].

 

Domenico Quirico: «Appena dietro piazza Tahrir, al Cairo, dove si consumava, allora, 2011, l’ennesima, imperfetta primavera del mondo, [...] c’era una libreria. In vetrina il volume era al centro: con il volto dell’imbianchino pestifero, disteso su una fila di croci runiche. Sì: Mein Kampf, edizione in arabo. Il libraio, saldo e aitante, sordo al tumulto che gli rombava intorno, mi mostrò le 900 pagine, le sguaiate ostentazioni, senza enfasi o cautela: «Si vende, si vende, soprattutto a giovani, venti, trent’anni». Sono tornato al Cairo, due anni dopo: il tumulto si era spostato proprio nella via della libreria, che era chiusa. Ma il Mein Kampf era sempre lì, ben sistemato in vetrina. [...] L’ho trovato nelle librerie e nelle biblioteche di tanti, troppi paesi musulmani, dal Libano all’Iran, alla Turchia. In Marocco, al festival del libro di Casablanca era negli stand: provocò appena un cauto scandalo» [6].

 

E tutto comincia già negli anni Trenta, stentatamente: dal mondo arabo arrivavano a Berlino gioiose proposte di traduzione, ma erano i tedeschi a opporre rinvii e rifiuti. Non volevano versioni edulcorate, ovvero senza le brutali asserzioni della superiorità degli ariani sui semiti. Eppure agli arabi, che stramaledicevano l’Inghilterra, piaceva il Reich. La Germania non li aveva colonizzati e voleva mandare in pezzi l’ordine di Versailles. Soprattutto suonavano dolcissime le sfuriate antiebraiche di Mein Kampf: gli ebrei dannati, con l’aiuto degli inglesi, stavano colonizzando la Palestina, la compravano ettaro dopo ettaro. Il gran mufti di Gerusalemme, Amin al Husayni, fu tra i primi a spedire telegrammi di lode. Qualche anno dopo si fece fotografare, esule giulivo, accanto a Hitler: controllava soddisfatto i conti della Soluzione finale [6]

 

Dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della «Bibbia del nazionalsocialismo». I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera (era l’ultimo posto in cui Hitler era stato registrato come residente) che vietò qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per la prima edizione (commentata e scientificamente corretta) tornata nelle librerie tedesche a inizio 2016 dopo 70 anni di damnatio memoriae. Curata da un team di storici dell’Institut für Zeitgeschichte (l’istituto di storia contemporanea) di Monaco di Baviera con il dichiarato scopo di smontare il mito che aleggia ancora attorno al manifesto del Führer. Due volumi, 59 euro, 2mila pagine, 3.500 note critiche; il testo originale sulla parte superiore della pagina destra, sotto delle notazioni grammaticali e le differenze nelle varie edizioni, sulla pagina di sinistra commenti di contesto e spiegazioni. Gli autori: «Abbiamo circondato Hitler con le nostre note» [5].

 

Ma le logiche di mercato hanno subito scavalcato gli intenti filologici e pedagogici. E così la prima edizione legale in Germania dal 1945 ha scatenato una corsa all’acquisto dell’oggetto di «culto»: la prima tiratura – 4 mila copie – è andata esaurita il primo giorno, l’8 gennaio. I librai tedeschi non hanno fatto neppure in tempo a ricevere i volumi, già tutti prenotati. Una delle prime copie è stata rivenduta su Amazon per quasi 10mila euro. Anche se la maggior parte dei librai ha deciso di non esporre il testo, vendendolo solo su richiesta, dal giorno di uscita è tra i cento libri più venduti in Germania [7].

 

Chiaro dunque che la decisione di ridare alle stampe il Mein Kampf (che in edizione pirata è sempre circolato) non abbia mancato di suscitare polemiche. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, ne ha sostenuto l’utilità: «Il commento critico mostrerà con quali teorie e tesi, false, abbia lavorato Hitler». E in Germania si sta anche molto discutendo sulla forma nella quale reintrodurre lo studio del testo, ovviamente a scopo storico, nelle scuole. Per altro in Germania le edizioni non commentate restano vietate. Ma pochi giorni fa un editore di Lipsia, come riportato da Bild, ha deciso di pubblicare il Mein Kampf nell’edizione originale, senza alcun commento a supporto. Si tratta della casa editrice di estrema destra Der Schelm (letteralmente il «briccone»). La procura di Bamberga ha aperto un’inchiesta. Sacchi: «Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer, come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto [7].

 

Ruggeri: «Il vero dramma di questo libro fu la sua non lettura. Tutti i tedeschi dell’epoca ne possedevano una copia (Hitler incassò 12 milioni di marchi di diritti), ma rimaneva intonso sugli scaffali di casa, oppure letto come fosse Nostradamus. Peggio, non fu letto dai leader occidentali dell’epoca, dalle varie cancellerie, dagli intellò non ebrei. In politica, così come nel management, bisogna leggere tutto dei nemici, e pure degli amici che nemici possono diventare» [8].

 

Charles De Gaulle nel 1939 urlando inascoltato che le difese francesi erano insufficienti per fermare l’avanzata nazista, ripeteva: «Ci salteranno alla gola, io lo so: ho letto il Mein Kampf!» [7].

 

Nota. Nel pomeriggio di sabato ci siamo affacciati in cinque edicole romane: «Avete il Mein Kampf?»; «No, mi dispiace, esaurito».

 

Apertura a cura di Francesco Billi

 

Note: [1] Fabrizio Caccia, Corriere della Sera 11/6; [2] Alberto Custodero e Piera Matteucci, repubblica.it 11/6; [3] Focus.it 11/6; [4] Umberto Gentiloni, lastampa.it 11/6; [5] Il Post 2/12/2015; [6] Domenico Quirico, lastampa.it 11/6; [7] Matteo Sacchi, il Giornale 8/6; [8] Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 23/1.

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