Roberto Saviano (foto LaPresse)

Icone farlocche incensate dalla polizia del pensiero. L'incredibile caso Saviano

Giuliano Ferrara
Lo scrittore eroe è un gioco di società che imprigiona la libertà di pensare, prima che la libertà di dire. Ok la scorta a Saviano, ma pure D’Anna merita un premio – di Giuliano Ferrara

Questo pezzo sarebbe pericoloso per chiunque, tranne me che non ho ambizioni di carriera, e da anni mi sono fatto una cattiva reputazione con qualche sputazzo televisivo e la confezione del più bel giornale del mondo, quello che leggete. Andiamo avanti. Che Saviano sia uno scrittore banale, un pubblicista senza talento, è per me appena ovvio, anzi, incontrovertibile: basta leggerlo. Mi dicono che i suoi testi sono editati con cura, ma l’insuccesso è perfetto: la sbanalizzazione di Saviano è compito impossibile. Una pomposa titolazione in prima, su Repubblica, parlava due giorni fa di un suo augusto messaggio contro le mafie al Parlamento inglese, poveretti: qualche paginetta richiesta da un deputato laburista di serie b metteva capo a quattro scemenze sulla mafia che invade silenziosamente la City di Londra e riconverte in merda criminale tutto quello che tocca, e tocca tutto, nella madrepatria e nell’offshore. Già i Panama Papers sono una mezza cialtronata, ma qui non c’è proprio niente di niente, neanche la cialtroneria, niente, salvo la malaparata di un noir noioso che sembra la sottospecie dell’unico Godfather non riuscito, il Padrino - Parte III”.

 

Il senatore Vincenzo D’Anna ha la faccia, la pancia, il linguaggio del corpo e delle mani che piacciono a me, e che vengono da un’altra Italia, un paese dove i partiti sono orgogliosi della loro storia (D’Anna è un vecchio democristiano riciclato), la politica difende la sua autonomia, si fa qualche pasticcio come sempre quando si realizza qualcosa di interessante, ma per il resto da quella pancetta, da quello sguardo sorridente e furbo, da quel modo di parlare schietto e spontaneo, da quella coraggiosa articolazione di egregie cose mi aspetto sempre qualcosa di buono: il politico meridionale di razza, in specie di razza casertana, non so perché mi ispira fiducia, tolleranza, simpatia, curiosità intellettuale e morale. D’Anna dovrebbe essere ringraziato e premiato. E’ andato a una trasmissione radiofonica hard e ha detto quel che pensa: che Saviano vive di rendita su una scorta che gli è stata approntata un po’ di straforo, che c’è mistero sulle famose minacce, un genere (quello delle minacce) su cui vivono e prosperano fior di stronzi anche a prescindere dal buon Saviano; ha detto che una sentenza di Cassazione definitiva ha riconosciuto che il suo romanzone criminale, Gomorra, è per ben tre capitoli copiato dal lavoro di bravi giornalisti e cronisti di provincia. Ne ha concluso, comprensibilmente, che Saviano è un’icona farlocca, termine ben scelto. Ma forse espressione lite, light, troppo leggera, frizzantina, di un problema ben più grave, di cui il senatore D’Anna ha subito fatto le spese. Saviano è il nostro carceriere.

 

Dieci anni fa circa vidi un servizio del tg1 che raccontava il romanziere messo sotto scorta con i toni che conoscete dell’antimafia e dell’anticamorra da sbarco. Mi dissi subito: ecco l’ultima truffa. Ma il fenomeno non fece poi che ingigantirsi. Repubblica di Ezio Mauro, un giornalone cinico e possente, fece di Saviano un emblema, un’impresa misteriosa come quelle dei re nel Cinquecento, un fascio di significati riassumibili in uno solo: è un onesto, un lottatore, uno che alla camorra le fa male, uno che ha un invidiabile coraggio, un giovane bellâtre che è costretto al chiuso della vita blindata e non può più amare, un successo unanimemente invidiato, un portavoce politico e civile di primissima grandezza. Negli anni successivi mi è capitato di sentire da testimoni attendibili che Saviano era o stava diventando l’eroe perfetto, un potenziale leader della nazione, un possibile candidato premier di una sinistra e di un partito democratico in asfissia da mancanza di formule e simboli capaci di troncare la lunga cavalcata di Berlusconi e la presenza ingombrante di menti politiche diverse ma tutte accomunate da una relativa autonomia, molto relativa prima di Renzi, dal vecchio establishment di sinistra, anzi “de sinistra”. Non ci volevo credere e sbeffeggiavo gli interlocutori: Saviano, ma di che parlate?, è un tipetto buono per Fazio, per la televendita dell’ideologia, in politica ci vogliono persone non necessariamente seriose ma serie, non le lagne umane. A un certo punto scrissi che cosa pensavo della sua letteratura e delle sue comparsate, dissi il vero, che era un superbanale, mi presi una sporta di insulti, e pazienza. Sentivo, e spesso venivo a sapere, che tutte le persone davvero stimabili la pensavano come me. Chissà il senatore D’Anna, un cucciolo di Cosentino, quel parlamentare influente, padrone politico di mezza Campania, cacciato in galera e accusato di mille infamie, ma ancora in attesa di una sentenza che lo condanni per qualcosa di serio.

 

Ma Saviano progrediva sempre, ascolti, copie vendute, articoli, rubriche, titoli, internet, e viaggi di presentazione al pubblico affettuoso di Occupy Wall Street, ogni canalone si sfogo della pubblicità mediatica era il suo, una specie di airbnb internazionale delle idee buone, belle e giuste. E si esprimeva su tutto, ultima ma solo in ordine di tempo, la sua battaglia contro Renzi e questo vergognoso governo delle banche cattive, delle lobby, della malapolitica dissimulata eccetera. Mi girava la testa. Il furbissimo fiorentino Renzi si guardava bene dal rispondergli, anzi a domanda rispondeva che bisogna fargli un monumento, che è un’icona della giustizia eccetera. I salottoni plaudivano, l’opinione pubblica era rapita come una ragazzina scodinzolante. Lui il banale distribuiva banalmente derrate di “vergogna!” e “vergogna!”. Io che sono un porco me ne stavo nel mio porcile sapendo che in realtà era una prigione linguistica, di way of life, un antro buio dove veniva ricacciato chiunque dissentisse sull’epica di Roberto Saviano, chiunque fiutasse l’inganno e osasse esprimersi in merito con un grugnito.
Finché è arrivato D’Anna. Verdini ha dovuto scusarsi, comprensibile, per la malagrazia del suo senatore. I fiorentini devono dissimulare, primum vivere, ricordarsi di mandare i fiori. Ma D’Anna ha insistito. Nessuno ha paura di Saviano, nessuno lo vuole morto, la scorta è farlocca, il libro è farlocco, l’icona è farlocca, i nemici della camorra sono i poliziotti i magistrati e i carabinieri che perseguono i reati, punto. Dire questo è pericoloso, anche in un periodo storico in cui perfino i ciechi hanno visto la vera immagine delle gesta dell’antimafia professionale. Lo scrittore eroe è un gioco di società che imprigiona la libertà di pensare, prima ancora che la libertà di dire. A me però sembra che le cose dette da D’Anna dovrebbero essere eventualmente respinte con garbo, con argomentazioni serie, con dati in contraddittorio, e che per intanto si debba approntare una scorta anche per lui, senza toglierla a Saviano, ma sopra tutto per lui. Io amo D’Anna, lo trovo passabilmente originale nell’Italia dei fatti e rifatti dal media-system, non voglio che ad alcuno sia consentito fargli del male.

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.