Lo stilista Valentino Garavani (foto LaPresse)

Valentino e l'immensa, inattuale eternità di Violetta nella Traviata

Simonetta Sciandivasci
Negli abiti del grande stilita s’inciampa, si esagera, si è classiche e splendide, non ambasciatrici del presente. Presente però intangibile. Coco Chanel diceva che la moda è fatta per diventare fuori moda. Allo stesso modo, Violetta Valéry è fatta per uscire da sé stessa, dal suo tempo, dal suo spazio.

Valentino ha detto: “Ho voluto una Traviata non moderna e ridicola come se ne fanno molte oggi, ma classica e splendida”. E solo lui poteva osare la grande restaurazione e restituire Violetta Valéry all’inattualità che la eterna e in cui Verdi e Francesco Maria Piave la posarono. Solo lui poteva toglierla dallo spazio e dal tempo e riuscire a farlo nel nostro presente così sul pezzo, contemporaneo, ficcato nell’ordinarietà dell’attuale e fissato che ciò che lo riguarda è sempre e soltanto un’occasione di riconoscimento. Valentino sa come siamo fatti, noi polle e polli, quindi per rassicurarci ha aggiunto di aver voluto con sé Sofia Coppola, affinché regalasse all’opera “un tocco moderno” e ha lasciato che, in conferenza stampa, Piccioli dichiarasse che “lo sforzo è stato quello di contemporaneizzare l’opera” (dando così licenza a Vanity Fair di scrivere che questa Traviata, da oggi, 24 maggio, al Teatro dell’Opera di Roma, sarà “griffata”), contraddicendosi immediatamente dopo, nello svelamento dell’obiettivo: “Far emergere Violetta”. La contraddizione sta nel fatto che per far emergere Violetta bisogna frantumare gli orologi, ignorare lo Zeitgeist, deragliare dalla linea del tempo e non darle le sembianze del presente: chi l’ha attualizzata, infatti, l’ha schiacciata, per esempio vestendola con pantaloni bianchi (2012, regia di Rosetta Cucchi al Teatro Comunale di Bolzano) così che la critica potesse scrivere “Traviata femminista” e far tornare i conti della storia d’amore finita male per colpa delle convenzioni.

 

Ma Violetta è La Traviata e traviata, letteralmente, significa “colei che è uscita dalla via” e fuori dalla via c’è lo smarrimento, non ci sono i conti che tornano. Il taffettà rosso di uno dei quattro vestiti che Valentino ha disegnato per Violetta, chiacchierato nelle interviste, intravisto nei bozzetti pubblicati su Instagram, è di quel rosso con cui Valentino ha ribadito, lungo tutta la sua carriera, che nei suoi abiti non ci si può accomodare, ripararsi, cercare il tratto comune agli altri e intonarcisi. Nei suoi abiti s’inciampa, si esagera, si è classiche e splendide, non ambasciatrici del presente. Valentino non è griffato: lui è la moda. Presente però intangibile. Coco Chanel diceva che la moda è fatta per diventare fuori moda. Allo stesso modo, Violetta Valéry è fatta per uscire da sé stessa, dal suo tempo, dal suo spazio. Carnale e viva, però pure oscillante ed evanescente, Violetta incomincia a morire da subito, sviene la prima volta già nel primo atto, quando ancora non sa di avere la tisi e noi la conosciamo cinguettante, assai schiava perché assai libertina, mentre imbalsama i salotti dicendo che “la vita è nel tripudio”. Appartiene così poco al tempo, Violetta, che travia l’amore dal possesso, quel pungolo che sentiamo forte quando ci rendiamo conto che la vita passa e ci svuota le mani e allora prendiamo affannosamente a riempirle con le cose, le persone, le passioni orrendamente scambiate per sentimenti. Nel 1955 Maria Callas fu la Violetta di Visconti: la critica la trovò manchevole di dolcezza, umanità, passionalità.

 

L’immensa, inattuale eternità di Violetta sta nel rinunciare all’amore per amore: Maria Callas capì che a un sacrificio così alto non s’arriva con le passioni, ma coi sentimenti ben allacciati alla ragione e per questo restituì una Violetta lucida, poco romantica. E’ Afredo quello romantico e per questo volubile, orgoglioso, babbione: gli basta che Violetta gli sorrida – “lo vedi, ti sorrido, son tranquilla” – per illuderlo che i turbamenti che la impallidiscono siano solo emotività femminile, mentre invece sono il suo essere così piantato nei desideri, nella vita, nel tempo, nella soddisfazione a ucciderla. Con “Amami, Alfredo, amami quant’io t’amo”, Verdi fa cantare a Violetta la scoperta che chi ci ama può non essere capace di farlo. E l’atrocità sta lì, non nello scontro con le convenzioni, altrimenti “La traviata” avrebbe smesso di parlarci e nemmeno un esercito di Coppole e Valentini sarebbe stato capace di ridarle una voce così interrogante com’è quella che ha tuttora e che ci aggroviglia le budella e ci fa sentire tutte e tutti Violetta, anche se siamo quasi tutti e tutte Alfredo.

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