“Bacalaureat” di Cristian Mungiu

A Cannes la giuria non si faccia intimidire dagli intellò parigini

Mariarosa Mancuso
Lasciamo da parte gli orrori, volontari o involontari – a partire dal film di Sean Penn, nel riquadro a fondo pagina – e concentriamoci sulle cose belle. Ce n’erano parecchie quest’anno al festival di Cannes, e prese tutte insieme formavano una Commedia Umana nel senso di Balzac.

Lasciamo da parte gli orrori, volontari o involontari – a partire dal film di Sean Penn – e concentriamoci sulle cose belle. Ce n’erano parecchie quest’anno al festival di Cannes, e prese tutte insieme formavano una Commedia Umana nel senso di Balzac. Scene di vita provinciale o di vita cittadina, osservate e riprodotte con la curiosità di chi entra in una stanza e sa descriverla fino all’ultimo ninnolo senza far sbadigliare il lettore. Lo stesso spirito di osservazione valeva per i personaggi grandi e piccoli, i loro discorsi, le loro ambizioni (fossero la conquista di Parigi, di una bella signora, della ricchezza o solo del pasto successivo)

 

Realismo, insomma. Più o meno sporco. Più o meno riuscito. Per farlo riuscire sullo schermo serve talento, non la furbizia utile per i giochini dove qualcuno si mette di mezzo tra noi e quel che viene raccontato (ammesso che qualcosa da raccontare ci sia). I registi rumeni sono saldamente in possesso della tecnica, e hanno storie da raccontare. “Sieranevada” di Cristi Puiu acchiappa una famiglia e non la molla per quasi tre ore (i congiunti sono riuniti 40 giorni dopo il funerale del capifamiglia, litigano come tutti i cognati, il dietrologo che vede complotti dappertutto). In “Bacalaureat” di Cristian Mungiu il graal da conquistare è il diploma di maturità per scappare in Inghilterra – la ragazza è stata accettata, la borsa dipende dal voto, non avete idea di quanti ostacoli dovrà superare nei giorni dell’esame. In “Ma’ rosa” di Brillante Mendoza entriamo in un commissariato filippino, e ci restiamo due ore, tra calci e pugni, uscendo solo in ciabatte mentre diluvia.

 

Quando funziona male – la scrittura non c’è, gli attori sono lasciati a se stessi, manca l’arco drammatico e la scadenza temporale – viene fuori l’insopportabile on the road “American Honey” di Andrea Arnold. Adolescenti che vendono abbonamenti alle riviste, nel Midwest dove nessuno legge (infatti è una scusa per rubacchiare). Oppure l’altalenante “Toni Erdman” diretto dalla tedesca Maren Ade: scene rapide, di scorcio, originali (sempre con la fotografia dell’ispettore Derrick) alternate a noie profonde. Quando funziona malissimo, viene fuori “Rester vertical” di Alain Guiraudie: un tizio taciturno che nella campagna francese si scopa tutto, moribondi compresi (sdegna solo i lupi).

 

E poi c’è Xavier Dolan, che nella sua storia di famiglia – “Juste la fin du monde” – proprio non riesce a trovare il tono. Videoclip con musica a palla, urla, flashback liricheggianti, uccellini vivi nell’orologio a cucù. Per questo viene annunciato come sicuro vincitore. Speriamo che George Miller, regista di “Mad Max: Fury Road” e presidente della giuria, non si lasci intimidire dagli intellò parigini. O dai registi che hanno superato la loro data di scadenza: Ken Loach, i Dardenne, Almodovar.

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