Macché Almodóvar, gli applausi di Cannes sono per un film di due registe sui soldati di ritorno dall'Afghanistan
Doveva essere la giornata di Pedro Almodóvar con “Julieta”, annunciato da un gadget a forma di cuore. Per ben disporre verso un regista che ha passato il suo momento: l’ironia di Alice Munro – a cui ha rubato tre storie – si fa melodramma, in una catena infernale di disgrazie che non commuovono. Doveva essere la giornata di Olivier Assayas con “Personal Shopper”, storia di fantasmi parigini tra vestiti lussuosi e gioielli Cartier. “Dammi un segno”, chiede Kristen Stewart al fratello morto nella casa con le ragnatele. Si fa vivo un ectoplasma da seduta spiritica ottocentesca. Difficile non ridacchiare.
Colpo di scena. E’ stata invece la giornata di Delphine e Muriel Coulin, due tostissime registe che avevamo scoperto con “17 ragazze” (il loro primo film, girato nel 2011). Partendo da un fatto di cronaca, raccontava 17 ragazze incinte contemporaneamente in una scuola di Lorient, città della Bretagna con porto e arsenale. Era il loro modo di immaginare una vita meno squallida (una finge la pancia, anche lei vorrebbe la sua parte di felicità). Al secondo film – sezione “Un Certain Regard”, quindi non ritenuto degno del concorso di serie A – sono semplicemente strepitose. Per la scelta del tema, per la regia, per la scrittura, per il coraggio e l’assenza di qualsivoglia lagna. Muriel l’ha ricordato, con un pizzico di polemica, sul palco prima della proiezione ufficiale: “Un vero film di donne”. Interpretazione nostra: “Non un vecchiume come ‘Mal de pierres’ di Nicole Garcia, con Marion Cotillard che alle terme freme di passione”.
Il vero film di donne si intitola “Voir du pays” (“Vedere il mondo”). Comincia su una carta geografica, con l’aeroplanino e il tragitto punteggiato dall’Afghanistan a Cipro. Dal 2008 l’esercito francese prevede tre giorni-cuscinetto per le truppe che tornano dal fronte: albergo di lusso, biancheria lavata (“non vi facciamo tornare in famiglia con il sacchetto dei panni sporchi”), possibilità di mescolarsi ai turisti, sedute di debriefing. Ogni militare cerca di liberarsi dei ricordi peggiori, con l’aiuto della realtà virtuale. Dici “un soldato senza gamba vicino a me”, e l’operatore inserisce la figurina del soldato senza gamba, come in un videogioco. Tra i soldati in tuta mimetica ci sono ragazze toste come le registe. Anche loro di Lorient, arruolate per gli stessi motivi dei maschi coetanei: denaro, lavoro, indipendenza, fuga, aiuto ai più sfortunati.
Delphine Coulin ha scritto il romanzo con lo stesso titolo, uscito da Grasset, il film l’hanno girato insieme. Raccontano la guerra in Afghanistan senza spostarsi da Cipro, divisa tra Turchia e Grecia: “Culla della democrazia, quella per cui avete combattuto e che cerchiamo di esportare” ricorda un ufficiale. Raccontano una storia di reduci – un classico di tutti i conflitti, dalla seconda guerra mondiale, alla Corea, al Vietnam – con due donne per protagoniste. Per quanto ci sforziamo di ricordare, è la prima volta che succede nella storia del cinema. Due ragazze combattenti, non in ufficio a smistare le scartoffie. Una rimane ferita alla gamba e rischia la vita prima che arrivi l’elicottero, l’altra era nel camion seguente, e si sa che sotto stress le versioni dei fatti non sempre concordano. Aurore e Marine (la rock star francese Soko, bravissima e ombrosa) erano anche compagne di scuola, una bella e l’altra meno. Le registe sono troppo intelligenti – e troppo seriamente innamorate del realismo: c’è un mondo là fuori, guardiamo come cambia, mica tutti in Francia vanno al DAMS – per dimenticarlo.
Antifascismo per definizione