Vittorio Sermonti

L'opera ultima di Vittorio Sermonti, quasi biografia piena di torti

Roberto Persico
Famiglia agiata, villa a Roma di tre piani con piscina e mimosa, fascismo e comunismo. Sempre antiborghese, “sempre dalla parte sbagliata, sempre sconsolatamente dalla parte degli assassini, senza volere, in ottima fede, ci mancherebbe pure, ma obbiettivamente da sempre avendo torto, il più storto dei torti, io”.

Da dove cominciare, a dire d’un romanzo che si presenta come “Opera ultima”? Ché il romanzo un cominciamento ce l’ha, nell’ingresso d’un villino in un viale di Milano, in un giorno non ben precisato della primavera del 1945, “ai primi di maggio, primi ma non primissimi se fuori c’era un po’ di sole e la nontemperatura della primavera lombarda”, nel momento in cui una famiglia sfollata da Roma nella grande città del nord si trova di fronte tre individui con tanto di mitra spianato. Nel concitato conciliabolo che ne segue, il fratello maggiore dell’io narrante/narrato, primo destinatario (forse, ma non è chiaro) della mortale minaccia, tiene testa al terzetto (o forse erano quattro? I ricordi dei presenti, come sempre accade, sul punto divergono), che infine dilegua, lasciando sospesa nient’altro che una vaga minaccia. Ma vago è altresì il cominciamento medesimo, intriso com’è della fallacia della memoria, che fonde seleziona discarta; è non è tanto l’inizio della storia, quanto piuttosto il nodo a cui sempre ritorna, nella vagabonda esplorazione che la memoria a partire da esso fa d’una vita.

 

Vittorio Sermonti, l’io narrante/narrato di “Se avessero”, da poco uscito per Garzanti, all’epoca ha sedici anni ancora da compiere; e attorno a quel punto riannoda i fili, sparsi, dell’intera esistenza. Racconta, dunque, di una famiglia agiata, villa a Roma di tre piani con piscina e mimosa, che alla vigilia dell’ingresso degli alleati nell’Urbe si insacca su una traballante corriera e s’instrada verso il nord più sicuro (perché più sicuro? Forse per via della cordiale adesione al fascismo del padre, e del figlio maggiore, che con l’8 settembre, in Grecia, “aveva fieramente voluto arruolarsi nell’esercito tedesco – di cui parlava a perfezione la lingua – onde evitare di essere associato, sosteneva, alla fellonia del re fellone”). Racconta del padre che, orfano a tredici anni di una guardia di dogana, cresciuto nelle ristrettezze d’una madre “non so quanto alfabeta”, duramente aveva studiato fino a diventare avvocato di grido, e tutti in famiglia dicevano che teneva lui, Vittorio, per preferito (e le pagine del ricambiato affetto per il padre non sono tra le meno intense del libro). Racconta della madre, viceversa assai poco affettiva, e della di lei tentacolare famiglia, che alla Patria aveva dato deputati e ministri, e che non si capiva bene come avesse poi consentito al socialmente diseguale coniugio. Ricorda come l’allargata famiglia materna fosse un’isola di blando antifascismo in un mare di quarantacinque milioni di fascisti, e come la ristretta famiglia propria fosse, all’interno di quella, un’isola di garbato fascismo (forse più patriottico che davvero fascista, ma all’epoca discernere era difficile). Racconta delle scoperte d’un adolescente fra guerra e Dopoguerra, le sigarette, le donne, il tentativo fallito per età insufficiente d’arruolarsi nella Guardia nazionale repubblicana.

 

Racconta poi del passaggio, finita la guerra, sull’opposta barricata, tessera del Partito comunista: “Sempre dalla parte sbagliata, sempre sconsolatamente dalla parte degli assassini, senza volere, in ottima fede, ci mancherebbe pure, ma obbiettivamente da sempre avendo torto, il più storto dei torti, io”. Forse perché al proprio destino non si sfugge? “Io però che, a farla facile, ero transitato direttamente dalla antiborghesità del fascio a quella della falce e del martello, mi ostinavo a rifuggire da ogni quotidiana baldanza. Perché? Perché surrettiziamente borghese?”. Tanto che nelle più tarde partite di calcio di “filologi filosofi poeti e critici cinematografici contro regazzini de bborgata che conosceva lui, PPP – l’acronimo non ha bisogno di chiarimenti – non mi passava mai la palla. Perché ero borghese, ecco perché non mi passava mai la palla!”). Ma no, perché in fondo ciascuno decide quel che vuol essere: “Perché, fratel mio, di questo mi sono accorto vita facendo: che se pensarsi vittime di tutto e di tutti può presentare a una prima degustazione i suoi circoscritti vantaggi ritorsivi, alla lunga essere vittima del sentirsi vittima profila una altezzosa astinenza dall’alterità, il perpetuarsi della boria desolata e solitaria dell’adolescenza”.

 

E, a tutto questo e a molto altro intrecciato e nel finale esplodente, il canto d’amore all’amore attuale: “Andare al luna park con la Callas, in piscina con Beatrice o al cinema con la Madonna, a lui (a me) sembrerebbe ordinario e feriale, se paragonato alla stupefazione quotidiana di essere amato da lei (da te, Bei Ginocchi, Occhi pescosi)”. Insomma, il canto del cigno (forse) di un uomo che ha attraversato la vita senza mai rinunciare alla responsabilità di viverla (e che spero perdonerà lo scrivente se, per cercare di darne al lettore un’idea, ha malamente cercato di riecheggiare lo stile virtuoso e personalissimo di Se avessero).