E' “Boss” la serie in cui si è attuata compiutamente la lezione di Machiavelli
Lalo Mata entra nell’ufficio del sindaco Tom Kane – il cittadino ha fatto carriera. Si accomoda, per così dire, di fronte alla sua scrivania. Sgrana le parole che ha faticosamente preparato per rassicurarlo, dopo che un appaltatore poco perspicace, da lui controllato, ha fatto congelare un intervento da decine di milioni di dollari all’aeroporto di Chicago, rivelando alla stampa il rinvenimento dei resti di un cimitero pellerossa. “Voglio garantirti che io e i miei uomini siamo con te al 100 per cento, nonostante il contrattempo di O’Hare”. Il contrattempo? “Lo scandalo”. Lo scandalo? “La fuga di notizie”. Ora ragioniamo.
Il sindaco si alza, passeggia oltre Lalo, attraversa una porticina al fondo dello studio. Si libera delle bretelle. Il fuoco rimane su Lalo. Il sindaco lo invita a continuare, mentre si cala i pantaloni. Lalo ha finito le parole: “So che sei un uomo impegnato, ti lascio alle tue incombenze”. Non ancora: “Ti ascolto, continua”, gli ordina il sindaco dal proprio trono improvvisato. Lalo farfuglia. Il sindaco si rialza, rassettandosi, e gli offre la mano – atto di sottomissione travestito da gesto di pace. Lalo è scusato. Il sindaco può lavarsi le mani.
Nell’affollato panorama del potere catodico, in cui la patente di machiavellico è distribuita sin troppo generosamente, il sindaco di Chicago portato in scena da Kelsey Grammer in “Boss” è forse l’uomo politico che più di ogni altro ha non solo compreso, ma anche attuato compiutamente la prima lezione del grande fiorentino: “Meglio essere temuti che essere amati”. La strategia funziona certamente con Lalo Mata: per dimostrare a Kane di aver ascoltato attentamente il messaggio, gli fa recapitare le orecchie mozzate del proprio vassallo chiacchierone.
Ma Mata è solo una delle pedine di cui Kane dispone senza limiti in una spassionata – e a tratti macabra – corsa a eliminazione. C’è una moglie di convenienza, colpita non casualmente da un attentato. C’è una figlia disconosciuta, poi ritrovata, e infine vittima di un’indagine per aver smerciato farmaci – rifornendo, tra gli altri, proprio Kane. C’è un suocero e mentore ridotto da vent’anni a un vegetale, grazie a medici compiacenti. C’è un antico alleato, il governatore dell’Illinois, e c’è il delfino che gli corre contro, sobillato e poi affossato da Kane. Ci sono i collaboratori, vecchi e nuovi, alternati con frequenza inquietante.
Associati e rivali non possono contenere la presa di Kane su Chicago. Ma il sindaco deve fare i conti con la propria mortalità. L’innesco della serie – la scoperta di una malattia degenerativa – è uno stratagemma narrativo forse abusato, ma che produce qui effetti innovativi. L’unica reazione di Kane è quella di proseguire come se nulla fosse. Non confessa a nessuno la debolezza e si prodiga per nasconderne gli effetti. I vuoti di parole, le allucinazioni sono semplicemente incentivi a rilanciare il proprio ruolo.
Può essere che “Boss” non insegni molto di nuovo sulla natura del potere, ma la serie c’ispira una domanda diversa: perché gli uomini lo cercano? La risposta più ovvia sta nel fatto che al potere si associano dei benefici collaterali: ricchezza, fama, prestigio; una risposta più sottile è la libidine del comando, l’orgasmo d’imporsi agli altri. Per Kane, non sembrano essere moventi rilevanti.
In “Boss” gli elettori quasi non esistono. Gli avversari politici sono tappezzeria. Il potere è una sfida con se stesso, una forma di autovalidazione. Certo, il potere è vuoto senza i soggetti su cui esercitarlo. Ma queste sono le regole del gioco, non la ragione per cui Tom Kane vuole giocare. Anche mentre è impegnato a non morire, il sindaco stringe la città tra le dita come in un riflesso incontrollabile. È nella sua natura. Dominare è l’unico modo che conosce di vivere.
Intervista a Gabriele Lavia