SDM, un universo di complicata semplicità

Pietrangelo Buttafuoco
Una telefonata nel cortile davanti alla camera mortuaria, e tutti quei pezzi di vita insieme che tornano. Il primo giornale insieme, quel suo modo di proteggermi. Poi gli anni al Foglio

E’ Francesco Merlo ad accendere la mia amicizia con Stefano Di Michele. Accade più di venticinque anni fa, a Roma. Gli citofono in casa per andare via a cena ma lui non scende: “Sali, dobbiamo aspettare un amico”.

 

Si apre il portone, faccio le scale. Francesco forse medita un esperimento o chissà quale scherzo. Mi fa sedere sul divano e mi dice: “Viene un giornalista dell’Unità, mangia con noi”.

 

Arriva Stefano – è il trambusto di una borsa con la tracolla piena di libri e videocassette – e Francesco, lo stesso test e per chissà quale passatempo, lo apparecchia anche a lui: “Ti presento Pietrangelo, lavora al Secolo d’Italia”.

 

L’ultimo comunista visto, il frontaliero dell’Armata Rossa dello scalo di Mosca, non m’innervosisce quanto i primi quattro minuti di questo ragazzo con la barba corta e nera che se la tira con la tiritera dei film dati in allegato dal suo giornale.

 

Parlano loro due, io sto zitto. Sono pellicole a me tutte sconosciute a parte “Nuovo Cinema Paradiso”, il film di Giuseppe Tornatore su cui Merlo fa mah! e Di Michele, invece, dice bello! In quel film c’è il bambino che se ne sta nella cabina del proiezionista e finalmente posso dire la mia – da piccolo passavo le giornate nella bottega del barbiere – e Stefano, allora, squarcia tutta la formalità del quinci, sorride e si racconta: “Ho fatto il barista al mio paese, a Mentana”.

 

Più di venticinque anni dopo sono nel corridoio della camera mortuaria dell’ospedale. Sono in piedi davanti alla porta e Stefano è disteso. Ha con sé i libri di Borges, Szymborska, Dickinson e poi il suo: “Borges e Camilla, Gatti, amori e altri disastri”. Ha un micio in grembo e porta al collo la sciarpa sistematagli da Antonella Onori e Luisa Pellizzari, le due vestali della stefaninità.

 

Due signori di Mentana arrivano, fanno cenno verso il catafalco e mi domandano: “Franco sta qua?”. Preso alla sprovvista, non so cosa rispondere ma trovo in mio soccorso Domenico Longo che li fa entrare e poi mi spiega: “Sì, per loro Stefano è Franco er barista”.

 

Entra Tommasino, vecchia quercia ultraottantenne, e si presenta: “Guardia Rossa a sinistra del Tevere”. Distribuisce condoglianze agli astanti e quindi intona il suo canto di commiato per Stefano: “Di-o be-ne-di-ca Sta-lin, pa-dre di tut-ti i po-po-li”.

 

La scena è di assoluta stefaninità. Luisa mi dà di gomito e quando Tommasino vuole sapere da me, proprio da me, come si sta all’Unità, Antonella – per il quale Stefano è er Topone, “mangiava scacio ed era sornione” – risponde per me: “Non può sapere dell’Unità lui, lui è fascista”.

 

Fascista, dunque. Tommasino mi guarda, scuote la testa e ricapitola tra sé e sé qualcosa che gli fa dire: “Giusto, giusto…”. Si ferma e un istante dopo mi chiede: “Ma perché se n’è andato al Foglio?”. Vorrei dirgli: di sicuro Stalin è più tutelato da Giuliano Ferrara che dal Pd ma chissà quante volte Stefano glielo avrà spiegato il perché sta al Foglio, vorrei che la Guardia Rossa “a sinistra del Tevere” cantasse ancora, così da far ridere Stefano che dal cielo tutto di zuppa blu guarda questo manicomio di dolcezza e c’è, insomma, da salutare Franco er barista di cui Bianca ricorda i primi articoli su “Tendenze”, la rivista della Federazione giovanile comunista di Mentana, e poi i cappuccini: “Ci chiamavano Bianca & Bernie”.

 

Esco in cortile, abbraccio Girolamo Cerbone, e sto cercando di trovare la forza di chiamare ancora Elsie dopo averle già dato la notizia. Recito in petto “da Lui veniamo, a Lui torniamo” intanto (fu con lei, Elsie Arfaras, che io e Stefano realizzammo “Sali & Tabacchi”, la trasmissione di Canale5) ma squilla il telefono, rispondo a Francesco Merlo e tutto mi torna nel riavvolgersi di più di venticinque anni, quando a partire da quella sera, comincia questa storia dove eravamo tre: Stefano, Francesco e io.

 

Finisce la cena, ci si attarda lungo il tragitto di via del Lavatore, ascolto il racconto della notte di Natale quando loro due – Merlo e Di Michele, uno per il Corriere della Sera, l’altro per l’Unità – a dispetto dei giornalisti che non lavorano nelle feste comandate, vanno a fare i loro reportage sulla messa di Vittorio Sbardella detto lo Squalo, il capo della Democrazia cristiana andreottiana e ciellina.

 

C’è una bellissima foto di Stefano giovane, con il blocchetto in mano, mentre strappa notizie e sorrisi a Sbardella. E quanto gli piace, a Stefano, quel Pietro Giubilo, il sindaco di Roma, della Prima Repubblica. Quanto gli piace, a Stefano, farsi piacere gli impresentabili, come Remo Gaspari o – in tempi recenti – i fuori target rispetto al canone benpensante. Ed è un piacere per lui farsi piacere Benedetto XVI, Mara Carfagna o una Michela Vittoria Brambilla, con cui condivide le fissazioni gattare e, ovviamente, Iva Zanicchi.

 

In Stefano c’è il grande giornalismo che da un dettaglio squaderna un film. I suoi soggetti deve amarli per farne materia di pezzi. Dei suoi disgusti – tantissimi – Stefano non sa che farsene ed è un pozzo di delicata umanità la sua scrittura, sempre mossa dalla curiosità mista alla sua paura di tutto ciò che è nuovo, estraneo, distante e stronzetto.

 

La felicità di Stefano, ragazzo di paese qual è, quando mostra alla mamma le foto con l’aquila di Ligonchio è tutta da raccontare. E perfino Silvio Berlusconi – e non solo la sagoma che lui si tiene accanto nella sua postazione al Foglio, ma quello in carne e ossa – la volta che l’incontra in Parlamento non può fare a meno (lui che odia qualunque radichetta in volto) di accarezzargli la barba. “Ha proprio una bella barba, sa?” dice il Cavaliere a Stefano che non è corrivo a nessuno o ad alcun consociativismo.

 

Stefano è un universo di complicata semplicità. Stefano non è di sinistra. Stefano è comunista ed è cosa ben diversa. Disciplinato, si carica ogni passaggio – dal Pci al Pds, dai Ds al Pd, o chissà quale altra diavoleria – accettando qualunque decisione purché all’insegna del centralismo.

 

Un giorno viene da me e mi dice: “Ha detto il capo tuo che da oggi dovete da essere antifascisti”. E’ il suo modo di commentare la svolta di Fiuggi. Legge sulla mia espressione muta il più tonante dei vaffanculo e, paziente orso marsicano qual è, mi dice: “Mi sa che ai tempi della Buonanima me sarei fatto il dovere mio da podestà di Mentana e tu, il posto tuo, l’avresti trovato al confino, a Ventotene”. Non mi sta facendo un complimento, sta spiegando quello che ha fatto per me per più di venticinque anni: proteggermi. Quando qualcuno vuole dare un lavoro a me e vuole evitare che gli si guasti la reputazione democratica, oplà, arriva Stefano, mi si affianca e nessuno protesta. Quando cominciano i primi inciampi per avviare la messa in onda di una mia trasmissione su Canale5 chiamo Stefano e Fedele Confalonieri tira un sospiro di sollievo: “Noi comunisti siamo rassicuranti”, commenta Stefano. E così quando Paolo Mieli, per darci una mano, ci affida la rubrica su Amica, il settimanale Rcs. E’ lì che troviamo, amica raffinatissima e deliziosa, Letizia Rittatore Vonwiller (dopo verrà a dirigere il giornale Fabiana Giacomotti) cui affidiamo le nostre pagine del “visto da destra, visto da sinistra” immancabilmente ribaltate da Stefano: “Ma lo vuoi fare il dovere tuo, e te ne stai a destra?”.

 

E’ comunista, Stefano. E il centralismo è tale che Walter Veltroni, per il quale Stefano è Orsacchiotto, nel giornale che dirige dispone quanto segue: “Nessuno attacchi Buttafuoco”. Molti, all’Unità, rimproverano a Di Michele la nostra amicizia e quando Stefano va a cena da Veltroni (“che bellissima famiglia, che casa; a tavola coi bicchieri tutti scompagnati”), gli racconta di noi e delle cose che facciamo insieme.

 

E’ comunista, Stefano. Confida in Massimo D’Alema, nelle monache che sanno mettere in riga i bimbi al refettorio e confida anche in Gianni De Gennaro, il Capo della Polizia per eccellenza che vorrebbe alla guida del Governo d’Italia senza perdere troppo tempo con gli smartphone o con le slide.

 

Tutto mi torna in quella telefonata nel cortile antistante alla camera mortuaria. Finisce la cena, ci si dice arrivederci e Stefano, nel salutarci, prende dalle sue mille sacche una videocassetta e me la consegna.

 

E’ il suo primo regalo: “Lo schermo a tre punte”. Un film di Giuseppe Tornatore fatto tutto di montaggi, spezzoni di vari film il cui soggetto è la Sicilia che Stefano conoscerà nella terrazza di Faccia Lavata, alla Zolfara, con lo zio Nino – Nino Buttafuoco, l’onorevole – che lo ubriacherà di storie, amori e seduzioni. A Stefano piace quella di quando in tabaccheria, comprando le cambiali, inaugurando il blocchetto, si pagava firmandone una al tabaccaio stesso; artifizi propri del genio debitore che beffava l’ufficiale giudiziario mettendo le ruote ai mobili di casa per non farseli pignorare.

 

Sta per arrivare il 1994, Stefano è in cerca di fascisti per scrivere, con Alessandro Galiani, un libro: “Mal di Destra” (edizioni Sperling & Kupfer). I due, entrambi dell’Unità, fanno capolino nella redazione del Secolo d’Italia, faccio loro da basista, se così si può dire, e Stefano – vero e proprio topone, sempre sornione, sempre pronto a mangiare scacio – nella portineria del partito incontra Guido Tabanella, segretario del Msi di Mentana, che lì lavora: “A Tabane’, manca poco e te fanno sindaco al paese”.
Poco, infatti, manca. Tabanella diventa sindaco e Pinuccio Tatarella, prossimo a diventare vicepremier nel primo governo Berlusconi, si prende una scuffia per Stefano, lo vuole sempre con sé e ora che ci penso chiamava me, Pinuccio, per far sì che Stefano arrivasse nelle occasioni dell’arrembante gens nova alla prova di governo: “Quanto mi diverto coi fasci”, dice Stefano mentre entrando in albergo, a Bari, con le chiavi delle camere troviamo una guantiera di sporcamusso appena sfornati. Una sorpresa di Tatarella.

 

E’ Francesco a praticare un innesto di lavoro nell’amicizia mia con Stefano. Arriva l’occasione di fare insieme un giornale – è l’Italia settimanale sottratta a Marcello Veneziani, cui chiedo scusa – e per dodici numeri, con Stefano, ne facciamo un laboratorio mettendo insieme mondi lontanissimi. Il settimanale, adesso, si chiama L’Italia. Sono dodici numeri in vendita nei circuiti del modernariato, e sono glorificati nei cataloghi del collezionismo, tanto li avevamo caricati di grafica, di prosa, di presunzione e di dolce stefaninità.

 

E’ Merlo a metterci insieme nel frattempo che lui se ne va a Parigi e Stefano e io – sul sidecar, un’idea di Sergio Nuti, regista di “Sali & Tabacchi” – nel 1998 percorriamo le strade d’Italia per realizzare una trasmissione che Pier Silvio Berlusconi chiuderà alla scadenza del secondo anno adducendo il più legittimo dei motivi: “Non la capisco”. (Che ridere, poi, Stefano si spaventa a stare seduto dentro il sidecar e Fabio Tricarico lo blocca piazzandogli una seconda telecamera sulle ginocchia).

 

E Merlo, da Parigi, sorride nel vedere che cosa combiniamo io e Stefano. La storia che comincia dove siamo tre diventa una storia di continui incontri. Come alla Festa dell’Unità, a Ferrara, la prima volta in cui Gianfranco Fini incontra il popolo della sinistra e con Pigi Battista, al tempo inviato de La Stampa, organizziamo uno scherzo. Tutti e tre – ciascuno nei rispettivi quotidiani, Stefano sull’Unità, io sul Giornale – scriviamo qual è il libro di formazione del leader post missino: Kazuo Ishiguro, “Gli inconsolabili”. Fini si ritrova raccontato come un raffinato intellettuale e si preoccupa. A Salvatore Sottile che è il suo formidabile addetto stampa, chiede: “Ma che libri ti porti, dietro?”. Sottile capisce tutto e ci chiama ridendo non senza commissionare ai giornalisti solerti di tutte le testate pagine e pagine di approfondimenti su Ishiguro, lo scrittore amato dal leader della gens nova arrembante.

 

Dopo di che, il Foglio. Io che mi perdo tutto per strada – nell’eterna gavetta – grazie a Battista che mi presenta a Giuliano Ferrara trovo una scrivania al Foglio. Un tempo avevo anche le chiavi della redazione. Sia della prima, in piazza Capranica. Sia di questa di oggi (ma quando c’era un’altra serratura). Con Stefano abbiamo fatto un giornale, una trasmissione per Elsie, una rubrica a quattro mani per Paolo Mieli e, infine, perché la vita ha i suoi indirizzi, abbiamo avuto un tetto a Lungotevere Raffaello Sanzio 8/C.

 

Chiude l’Unità e il compagno Ferrara – così dice Stefano – chiama Di Michele e gli fa un contratto. E così, con Stefano, ci ritroviamo per un altro pezzo di vita insieme sotto l’ombrello della stagione più anarchica e smutandata, al punto che lui non ci viene ma io sì, vado al Mutanda Day, a Milano, a difendere il principio degli italiani di serie B sopraffatti dalla serie A e quella volta Stefano commenta: “Guarda che la tua difesa del velo di Fatima in mezzo ai tanga di Berlusconi non l’ha capita nessuno”.
Dopo di cui, il Foglio. C’è anche Peppino Sottile. E’ il maestro paziente di tutti noi, pratico di maieutica letteraria e di leccornie proletarie più che di ragioneria redazionale. Peppino coltiva al meglio la stefaninità. E c’è quell’inserto del sabato, preparato da Peppino, dove Stefano, acchiappando un solo dettaglio, sciorina la vita al modo della sola cosa che non c’è: l’oblio.

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  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.