Un hijab Dolce e Gabbana

Tutto il fashion della sharia

Annalena Benini
Il mercato miliardario degli hijab contro i principi estetici di libertà. “La posta in gioco è il controllo sociale sui corpi delle donne, quando marchi europei investono nel redditizio mercato della moda islamica si sottraggono alle loro responsabilità”, ha detto Laurence Rossignol, ministro francese per le Famiglie, i bambini e i diritti delle donne.

Quando le case di moda europee promuovono l’immagine di ragazze emaciate, probabilmente anoressiche, diciamo che è pericoloso per la salute delle giovani donne. E quando pubblicizzano e vendono costumi da bagno islamici che non lasciano scoperti nemmeno collo e caviglie, e hijab di lusso, e linee di abbigliamento adatte al Ramadan (sotto le gonne lunghe, i leggings, per non turbare gli uomini) si può ancora rispondere che gli affari sono affari, e che questo libero mercato promette spazi di guadagno in incredibile aumento, precisamente, secondo il rapporto Reuters, quattrocentottantaquattro miliardi di euro entro il 2019? “La posta in gioco è il controllo sociale sui corpi delle donne”, ha detto Laurence Rossignol, ministro francese per le Famiglie, i bambini e i diritti delle donne, “quando marchi europei investono nel redditizio mercato della moda islamica si sottraggono alle loro responsabilità e promuovono una condizione in cui le donne musulmane sono costrette a indossare abiti che imprigionano il corpo dalla testa ai piedi. Come se non ci fosse alcun legame tra l’abbigliamento e lo stile di vita”.

 

La Francia ha una posizione netta, avendo vietato il burqa nel 2011, e la Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato questo divieto nel 2014. Elisabeth Badinter, filosofa e femminista francese, in un’intervista al Monde ha chiesto di boicottare i marchi (Dolce&Gabbana, H&M, Marks&Spencer, Uniqlo, DKNY, Tommy Hilfiger, Oscar de la Renta, Monique Lhuillier) che traggono profitto da questa moda velata e copertissima, perché crea una “crescente pressione islamica”, con il risultato che “il velo si diffonde tra le figlie del nostro vicinato”. Ma è giusto, è coerente con le regole della libertà, decidere che un hijab non si può vendere, o che un perizoma con i brillanti non va pubblicizzato? Secondo Catherine Bennet, editorialista del Guardian, “è legittimo chiedersi perché il business laico della moda dovrebbe produrre abbigliamento per donne per le quali uomini religiosi hanno già disegnato l’intero mercato”. Il New York Times si chiede se la moda debba promuovere una specifica espressione estetica di libertà. Commentatori americano-musulmani sostengono che questo sia invece un modo per integrare e normalizzare l’islam: vendere costumi da bagno (più che costumi da bagno: tende dentro cui nascondersi e sparire senza nemmeno la possibilità di essere riconosciute dalla pettinatura) nei negozi occidentali, attraverso uno specifico marketing che  faccia sentire questo modo di vivere e vestire più accettato, più accolto. Il Daily Mail ha celebrato così il burkini Marks&Spencer: “La prova definitiva che la Gran Bretagna è davvero multiculturale”. Anche la prova che i giornali hanno bisogno della pubblicità dei grandi marchi, in effetti, e che in generale questi immensi guadagni sono il motivatore più efficace. Infatti Pierre Bergé, braccio destro di Yves Saint Laurent, si è appellato ai princìpi: “Rinunciate al denaro, abbiate dei princìpi!”, diceva alla radio francese definendo “abominevole” la moda islamica. Ma gli affari sono un principio, e i veli ricamati valgono miliardi.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.