Vorrei difendere i borghi che non vogliono accorparsi, ma chissenefrega

Mirko Volpi
Il governo ha stabilito l'accorpamento dei piccoli comuni, sperando così di limitare gli sprechi e tagliare le spese, ma i piccoli centri si ostinano a voler esistrere da soli, conservare lo stemma comunale e avere un sindaco proprio.

Nosadello. L’Italia, il paese dei mille campanili, rischia di diventare il paese dei cinquecento campanili. O lo sta già effettivamente diventando, per effetto dell’accorpamento dei piccoli comuni stabilito dal governo, che spera così di limitare gli sprechi, tagliare le spese (aggiungere locuzione politicamente à la page a piacimento), contenere lo scialacquìo di quei dannati piccoli centri che si ostinano a voler esistere da soli, conservare lo stemma comunale, avere un sindaco in proprio, e non in comproprietà – magari – con i mal tollerati vicini di uscio. In alcune regioni fusioni sono già avvenute a séguito di regolari referendum che hanno per altro visto l’appoggio della maggioranza dei cittadini. Altrove, invece, ci si appresta a dar battaglia, si recalcitra, ci si vorrebbe opporre, al grido di “Orgoglio Comune” o roba simile. Insomma, ci sono piccoli borghi, disseminati qua e là nell’Italia storicamente micronesizzata e mediamente inviperita con chi osa violare i sacri recinti identitari, che stanno rompendo le balle.

 

Mentre mi annoiavo dolcemente e forsennatamente durante le feste pasquali nel mio minuscolo borgo – Nosadello –, che in questa contesa non ha nemmeno l’onore delle armi del comune espropriato della propria indipendenza, essendo da un secolo e mezzo, pensa un po’ l’ingiustizia, addirittura frazione dell’odiata Pandino; mentre insomma mi godevo questo eden di nulla campagnolo non autonomo, l’eco delle proteste dei mille paesini, il richiamo atavico del grumo di case libere e delle sagre della salamella, la poesia facile e commovente del borgo che si vuole difendere da indebite e grigie contaminazioni, destandomi dall’obnubilamento da eccesso di cibo, mi stavano per muovere a feroci e ben tornite invettive contro l’ottusità regolamentatrice del governo. Io, autonominatomi cantore svogliato delle microscopiche isole dell’Oceano Padano e, per diretta conseguenza, della Penisola tutta, illustratore della bellezza necessaria dei paesi più anonimi e dimenticabili e alfiere di quell’Italia anteriore (rubo l’acuta espressione ad Alessandro Zaccuri) ancora così massicciamente presente e viva, avrei dovuto prestare la mia penna a favore di un patrimonio di frastagliato particolarismo forse unico nel mondo occidentale (o in Europa, va’, non siamo mica abituati a esagerare, noialtri), il cui intacco produrrebbe senza dubbio un deterioramento del tessuto sociale e culturale su cui si fonda gran parte della nostra specificità storico-geografica.

 

Un impulso repentino affiorava in me facendosi largo tra l’inebetimento postprandiale, e mi suggeriva agevoli sferzate retoriche che partendo dagli asettici e chissà quanto veritieri calcoli economici di un lontano e poco assennato ministero, finivano per intonare il gloria alle peculiarità del mondo piccolo, all’Italia di Peppone e don Camillo, alle nostre mille maschere della Commedia dell’Arte, alle meraviglie del locale, al preservamento di – la tromba del moderno aedo antiglobale si modula specialmente su queste reboanti note – tradizioni e identità che questi kafkiani (massì, kafkiano più o meno ci può stare sempre bene) provvedimenti vorrebbero per decreto legge abradere dalla storia patria (che è “piccola”, o cittadina o comunale, per definizione).

 


Fernandel è Don Camillo, protagonista della serie televisiva "Peppone e Don Camillo"


 

Poi però mi sono perso via, mi sono messo a contemplare il piano addomesticato e desolato su cui si adagia il mio paese, e a considerare con distratta pervicacia, e per l’ennesima volta, l’ordine delle cose della natura e l’obliquo agire dell’uomo, il valore reale e attivo dell’appartenenza ai luoghi, la necessità di adesioni intime e pudicamente partecipi a essi, la pazienza dei santi patroni portati in processione, la verità della Storia che si compie lontano dalle urne elettorali, dagli uffici dei segretari comunali.

 

Ho pensato che Nosadello è, per gli annali e la burocrazia, frazione di Pandino, ma che parliamo dialetti diversi, apparteniamo a diocesi diverse, ci fregiamo di scurmagne (soprannomi) diverse, ci riconosciamo in minime, inestirpabili, non bellicose diversità. Che l’amore per la nostra esigua dimensione di senso permane tenace a dispetto di ogni imposizione statuale, e permarrà, fino a che non sarà pratica escludente e rivolta a inesistenti fasti del passato o a fatue celebrazioni di un perdurante ieri, ma virile esercizio di memoria di noi, quotidianamente, spensieratamente operante.

 

Così ho smesso di badare ai subbugli dei vilipesi borghi fratelli e sono tornato a concentrarmi sulla digestione del capretto arrosto.

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