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La guerra delle due sinistre

Luciano Pellicani
Il recente libro di Maurizio Pallante – “Destra e sinistra addio” (Lindau) – ripercorre il conflitto politico iniziato con Sparta vs Atene, proseguito da girondini contro giacobini e Kautsky contro Bernstein. E continua.

Il recente libro di Maurizio Pallante – “Destra e sinistra addio” (Lindau) – ripropone all’attenzione della critica uno dei temi politici più controversi e coinvolgenti del nostro tempo. Stranamente, però, ignora un fenomeno che pure ha drammaticamente caratterizzato la storia della civiltà europea per ben due secoli: la guerra fra le sinistre. La quale non è stata meno radicale e meno cruenta della guerra fra la sinistra e la destra.

 

Si comincia con il conflitto fra girondini e giacobini. Entrambi avevano dichiarato guerra all’Antico Regime, ma i modelli di società che avevano in mente erano incompatibili. Lo erano a tal punto che i giacobini, nel giugno 1793, mobilitarono la plebe contro i capi girondini e, dopo un sommario processo, li consegnarono al boia.

 

Fu la prima delle tante lacerazioni che avrebbero scandito la drammatica storia delle sinistre. Una lacerazione che veniva da lontano : dalla divisione del “partito filosofico” in partigiani di Sparta e partigiani di Atene: collettivisti i primi (Rousseau, Deschamps, Morelly, Mably); individualisti i secondi (Montesquieu, Voltaire, Diderot, Condorcet, D’Alambert). Infatti gli “spartani” volevano restaurare la “libertà degli antichi”, mentre gli “ateniesi” erano sostenitori della “libertà dei moderni”. Accadde così che, a partire dal 1789, la Francia fu il teatro di due rivoluzioni: “La prima rivoluzione, segnata dall’impronta di Voltaire – le parole sono di Louis Blanc – vinse facilmente e fu quasi più simile a una festa che a una battaglia; la seconda, nata da Rousseau, avrà soltanto una maestà funebre e finirà con una catastrofe”.

 


            

Ritratti di Rousseau e di Montesquieu


 

Ritroviamo il conflitto fra “spartani” e “ateniesi” nel seno della Socialdemocrazia tedesca. Mentre Karl Kautsky dagli scritti dei fondatori del così detto “socialismo scientifico” aveva estratto l’idea che nella società comunista non ci sarebbe stato spazio alcuno per la libertà borghese, Eduard Bernstein – profondamente influenzato dalla cultura politica elaborata dai Fabiani – concepì il socialismo come l’erede storico del liberalismo.

 

Non diverso il conflitto che si riscontra nella sinistra russa: al bolscevico Lenin – che stigmatizzava il liberalismo come una “grave malattia” a motivo del fatto che intendeva europeizzare la Russia –, il menscevico Yurij Martov oppose l’idea che il socialismo doveva essere la più alta incarnazione dell’individualismo. Un’idea che fu estirpata dalla Rivoluzione di Ottobre, la quale – precisamente per questo -- non fu affatto una modernizzazione difensiva, bensì una vittoriosa reazione “zelota” contro la civiltà occidentale e i suoi valori cardinali, primo fra tutti la libertà individuale.

 


                 

Lenin e Yurij Martov


 

E’ chiaro, quindi, che, sin dalla sua fase fondativa, la sinistra è stata un plurale. Sono sempre esistite quanto meno due sinistre: una accanitamente ostile alle “libertà dei moderni", l’altra animata dal progetto di allargare il perimetro borghese dello stato liberale. Di qui la lacerante contrapposizione fra rivoluzionari e riformisti. Una contrapposizione che investiva non solo la strategia, ma anche la mèta finale. Per la sinistra “ateniese”, il socialismo – concepito come sviluppo democratico -- poteva e doveva essere realizzato con il gradualistico metodo delle riforme; alla rovescia, per la sinistra “spartana”, la costruzione della società comunista esigeva “l’abbattimento violento di tutte le istituzioni sociali esistenti” (Marx ed Engels) e l’instaurazione del “terrore di massa” (Lenin) avente come fine la purificazione della società borghese, corrotta corruttrice. Di qui il carattere profondamente e irrimediabilmente reazionario della sinistra rivoluzionaria.

 

E’ un errore, però, ritenere – come scrive Pallante – che “nei paesi democratici le differenze fra i partiti più significativi della destra e della sinistra si sono progressivamente attenuate fino a scomparire quasi del tutto”. E questo perché, nella civiltà in cui e di cui viviamo, da tempo si confrontano due modelli di società. Quello liberista – caro ai “fondamentalisti del mercato” – e quello liberal-socialista. Detto con le autorevoli parole di Joseph Stiglitz, sono due le visioni della giustizia che possiamo prospettare di qui a mezzo secolo: “Una è quella della società più divisa fra chi ha e chi non ha, una società in cui i ricchi vivono in comunità blindate, mandano i figli in scuole costose e hanno accesso a cure mediche costose… L’altra visione è quella di una società in cui il divario fra chi ha e chi non ha si è ridotto, nel quale esiste il senso di un destino comune, un impegno condiviso a estendere opportunità ed equità, in cui le parole libertà e giustizia per tutti significano davvero quel che sembrano, in cui prendiamo seriamente la Dichiarazione universale dei diritti umani, che sottolinea l’importanza non soltanto dei diritti civili, ma anche dei diritti economici, e non soltanto dei diritti di proprietà, ma anche dei diritti economici dei comuni cittadini”. Il che significa che la distinzione “destra-sinistra” non è punto morta. Tale distinzione – a partire dalla bancarotta planetaria del comunismo marxleninista – ha cessato di essere una guerra ideologica e ha assunto le forme di un conflitto ritualizzato in cui non ci sono nemici da annientare, bensì avversari che si confrontano nell’agorà liberal-democratica centrata su quello che Kant chiamava “l’uso pubblico della ragione”.

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