Montesquieu e il garantismo alle vongole non vanno proprio d'accordo

Guido Vitiello
"Se proprio non riesce a dormire", mi ha detto il dottore, “prenda dieci gocce di Minias; in alternativa, legga dieci righe di Nadia Urbinati”. Farmacie notturne in zona non ce n’erano, così ho dovuto ripiegare sull’unico rimedio che avevo sottomano: la prefazione della Urbinati a un piccolo libro di Dario Ippolito.

"Se proprio non riesce a dormire", mi ha detto il dottore, “prenda dieci gocce di Minias; in alternativa, legga dieci righe di Nadia Urbinati”. Farmacie notturne in zona non ce n’erano, così ho dovuto ripiegare sull’unico rimedio che avevo sottomano: la prefazione della Urbinati a un piccolo libro di Dario Ippolito, “Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire” (Donzelli). Alla quinta riga, metà della dose, già mi pareva di leggere il famigerato tema di attualità dell’esame di maturità, scritto per giunta dalla prima della classe, e si sa bene che il semplice ricordo di quell’esame – unito all’incubo comune di doverlo ripetere da grandi – può togliere il sonno a chiunque. Niente da fare, ho saltato la prefazione e son passato a Ippolito, scoprendolo però tutt’altro che soporifero. “Garantismo è parola svilita, deturpata dall’abuso”, esordisce nel brillante prologo.

 

“Spesso, e comprensibilmente, suscita sospetto, insofferenza. Evoca, nell’immaginario di molti, cavilli procedurali e scaltrezze curiali. Suona falsa, come la cortesia dei padroni e la riverenza dei servi”. Ippolito passa poi in rassegna il mesto corteo degli attributi: garantismo peloso, d’accatto, ipocrita… Bene, mi son detto. Sciascia per primo non amava la parola garantismo, preferiva dirsi difensore del diritto e io, fatte le debite proporzioni (che sono quelle di una carta geografica, 1:10.000) condivido il suo fastidio. Dal prologo pare di capire che c’è un garantismo bene inteso e un garantismo male inteso, ma il discrimine tra i due rimane sottinteso. Ippolito invita solo ad accantonare le “avvilenti cronache dell’ordinaria illegalità” e a considerare l’ipotesi che l’ala rude della giustizia penale sfiori proprio noi, anziché i politici e i faccendieri. Da lettore docile, ho messo tra parentesi l’attualità italiana per distillare dai grandi autori lo spirito del garantismo schietto e glabro. Verso fine lettura, tuttavia, all’insonnia si è aggiunto un sintomo più grave.

 

Le orecchie hanno preso a fischiarmi come teiere arroventate. Dovrò consultare il dottore di “Goganga”, specialista dei malati di fischietto. Tra i bersagli della critica illuministica, ricorda Ippolito, c’erano la carcerazione preventiva dell’accusato, la posizione di inferiorità della difesa rispetto all’accusa, la confusione tra organi requirenti e organi giudicanti… Ma non erano i garantisti d’accatto, quelli a cui è sconveniente accompagnarsi, a ripetere per anni questi ritornelli? E poi: “Sono liberticidi, innanzitutto, i reati a fattispecie indeterminata… poiché possono sempre tradursi in capi d’imputazione da cui è difficile difendersi e in giudizi scarsamente prevedibili”. Di nuovo, le “avvilenti cronache” premevano per divincolarsi dalle parentesi in cui le avevo messe in castigo, e sibilavano come ossesse: concorso esterno! concorso esterno! L’assillo dei garantisti alle vongole, le cattive compagnie da cui deve guardarsi ogni persona ammodo. Poco male, il libro merita comunque qualche ora sottratta al sonno. Ma l’esercizio suggerito nel prologo proprio non mi è riuscito; perché a forza di separare le pepite d’oro della teoria dal fango delle cronache, si finisce per farne dei fermacarte.

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