Perché i film di Tinto Brass sono l'emendamento perfetto per la Cirinnà

Simonetta Sciandivasci

"E’ un film sull’estasi sensuale. Sul piacere di credere agli inganni, sulla golosità della gelosia". Nel primo pannello della mostra che il Vittoriano di Roma dedica a Tinto Brass (visitabile fino al 23 marzo), un piccolo schermo trasmette interviste al regista, ripescate da Rai Teche e Istituto Luce.

E’ un film sull’estasi sensuale. Sul piacere di credere agli inganni, sulla golosità della gelosia”. Nel primo pannello della mostra che il Vittoriano di Roma dedica a Tinto Brass (visitabile fino al 23 marzo), un piccolo schermo trasmette interviste al regista, ripescate da Rai Teche e Istituto Luce. E così capita di udire Tinto pronunciare quella frase, in risposta a una domanda sulla trama del film “La Chiave”, mentre si osservano le foto del matrimonio con la sua Tinta (così venne ribattezzata Carla Cipriani, anziché signora Brass, innamorata abbastanza di suo marito da fregarsene di essere riconosciuta sia con il suo cognome da nubile, come chiedono ora le insaziabili pasdaran dell’individualità, sia con il suo nome di battesimo: che adorabile sbarazzina).

 

Nella “Chiave” accade l’opposto di quello che succede in “Eyes wide shut” di Kubrick: a salvare un matrimonio che trascolora si insinua, tra i due coniugi, il sospetto del tradimento. Esattamente un anno fa, Tinto Brass dichiarò, in un’intervista per l’Huffington Post, che nei cinquant’anni accanto a Tinta, “i tradimenti che mi concedevo e che subivo alimentavano il desiderio. Ci raccontavamo tutto. La confessione nutriva il desiderio e il desiderio l’amore”. In cima a un altro pannello della mostra è scritto: “La liberazione si compie nel desiderio, nell’immaginazione, probabilmente non nella realtà”: per questo, tanto nei suoi film politici, quanto in quelli erotici – per lui “continuazione più onesta” dei primi – la libertà non scioglie catene, ma gioca coi vincoli e li sorregge affinché detonino il piacere.

 

La mostra su Tinto Brass, e forse lo stesso Tinto Brass (meglio, i suoi film), costituirebbero il perfetto maxi emendamento al ddl Cirinnà o, più contenutamente, la pulce nell’orecchio ai soloni che, negli ultimi giorni, s’infuturano nella speranza che il vincolo di fedeltà sparisca dal codice civile, dove, per ora, resta nel tentativo lievemente cerchiobottista di sancire una differenza tra matrimonio e unioni civili (queste ultime, come sappiamo dalle cronache politiche, non prevederanno alcun obbligo di fedeltà).

 

La gelosia che ingolosisce, le corna da non sdrammatizzare (“Domicile conjugal” di Francoise Truffaut in Italia lo traducemmo così: “Non drammatizziamo… è solo questione di corna”), la libertà da usare come provocazione senza mai arrogarsela, il soffio della malizia sul pudore: sono strumenti da teca, imbalsamati, li vediamo in una mostra e pensiamo che Tinto Brass sia stato un grande pazzo, un meraviglioso erotomane, quando invece dovremmo affidargli una fiction di dieci stagioni per la prima serata di Raiuno. Pensiamo che un po’ ci mancano quelle sue monelle che chiedevano “dime porca che me piase de più”, ma che, in fondo, potremo farne a meno in vista di un’acquisizione più grande: amori reali, equi, pragmatici, consapevoli che la loro tomba si chiama matrimonio e privi del pur minimo dubbio che, tolti dai sigilli, dai rituali, dalle promesse con cui consacrarci all’eterno per distoglierci dal pensiero della sua insensatezza, nasceranno e vivranno dentro ospedali, come chi viene al mondo gravemente malato. In compenso, l’ingresso alla mostra per Tinto Brass è gratuito: andare a ricordarci quanta gioia e fame di vita riusciva a regalarci un artista prima che l’amore, da bisbetico da domare, finisse col diventare stratega dell’uguaglianza e l’uguaglianza una raccolta indifferenziata di diritti, non costa nulla. Per chi vive lontano dall’Urbe, invece, ci sono pur sempre i dvd dei film di Tinto Brass, visibili anche in streaming, come la maggior parte degli italiani sa perfettamente, fruendone ancora in abbondanza.

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