Jean-Honoré Fragonard, “Fanciulla che legge”, 1770 circa, olio su tela, 81,1 x 64,8 cm. National Gallery of Art, Washington

Fiori che non sfioriscono

Sofia Silva
Sfogliare riviste vecchie di sessant’anni è come abbandonarsi a un liquore senza tempo. Fare l’alba con le domande dei lettori di un mondo che forse non c’è più.

    Un paio di mesi fa, in un momento di particolare insofferenza, accovacciata sulla poltrona divoravo una scodella di pesche sciroppate. Volevo a tutti i costi leggere e forse anche scrivere un romanzo che se ne sta sulle sue, dove precariato e adulterio sono parole sconosciute e i personaggi hanno nevrosi di cui allo scrittore non può importare di meno. Per raggiungere questo scopo ho letto, o finto di leggere, tutti i libri che mi capitavano sottomano e anche quelli che di mano mi sfuggivano, ma niente da fare: sono troppo veri, sapienti, struggenti, intelligenti, dentro le cose, dentro il mondo, quando invece io cerco di uscirne con una scatola di pesche sciroppate. Uffa che noia, la risolvessero i miei contatti Facebook questa maledetta accidia, loro che vivono di articoli sulle acquisizioni Amazon e inseguono reportage anni Ottanta su mari di coca sniffata da altri. Impugnai il computer, feci login su Facebook e scrissi: “A.A.A. AMORE. Ehi, sapete consigliarmi un romanzo d’amore dei nostri giorni in cui la donna non sia un’idea di donna, l’uomo non sia l’idea di un uomo che cerca di farsi un’idea di donna: non voglio un vigliacco sul mio comodino. Datemi un romanzo in cui non si parli di rapporto di coppia ma piuttosto la coppia sia un concetto totalmente inconcepibile, dove lui e lei non siano né sposati né divorziati, né padri o madri single, né precari, né avvocati, dottori o insegnanti, tantomeno politici o depressi o assassini o vacanzieri o romani, milanesi, napoletani, musicisti; un romanzo in cui non ci siano coming out a pagina 300. Avete capito? Aiutatemi”. Insomma, volevo un romanzo con due tizi di cui si sa poco o nulla fino all’ultima pagina, salvo meravigliosi vestiti che appaiono e scompaiono. Nessuno mi rispose.

     

    Quella sera fissavo un trecentesco palazzo padovano, incerta se suonare il campanello, quando un lembo colorato che sporgeva da un cassonetto sotto i portici attrasse la mia attenzione. Che c’era lì dentro? Chi? Nientemeno che la famiglia reale inglese raccolta in un grande salone, era il 1951 e i Windsor mi guardavano con benevolenza. Suonai e a chi mi aprì chiesi un sacco dove mettere i cinquanta numeri di Epoca che per tutta la serata mi costrinsero a pensarli. Tornata a casa, passai la notte divorando “Italia Domanda”, la posta raccolta da Cesare Zavattini, che per sbrigarla alla meglio si circondava dei propri amici. Feci l’alba. In “Italia Domanda”, Antonioni s’interrogava su una lettera di Giuliana Guapa da Roma che gli diceva di essere sconvolta dal fenomeno del divismo. Antonioni le rispondeva: “La sua meraviglia, in un certo senso, le fa onore”, intitolando questo intervento “Attori e canarini”. Dal canto suo Antonio Baldini, in risposta a Stefano Airale di Asti, ipotizzava che Elena di Troia fosse bionda perché si faceva la tinta. Insomma, un oceano di dimenticate indimenticabili delizie dove naufragare per il resto della mia esistenza, pardon, della mia giovinezza, insomma, di quest’anno.

     

    Ancora più geniali delle risposte, le domande dei lettori. “Desidererei sapere, anche sotto forma d’ipotesi, da qualche luminare in materia, perché la Natura, di solito così parca, concede due dentizioni” scrisse Guci da Aiello Calabro nel maggio 1953; mentre Rina da Sestri pochi mesi prima aveva scritto: “Spero che le sue parole possano liberarmi da un complesso d’inferiorità. Io e mio marito siamo piccoli di statura, siamo alti solo un metro e sessanta. Ci vogliamo bene e finora siamo stati felici. Ma, qualche tempo fa, mia sorella, che è bassa come me, si è fidanzata con un giovane molto alto, e da allora mi sono avveduta che mio marito e io siamo troppo piccoli, ne soffro tanto e mi sembra di essere inferiore a tutti”. A rispondere erano Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli, Aldo Fabrizi, Vittorio de Sica, Alfonso Gatto, Maria Montessori, Alberto Savinio, Sandro Penna e, meraviglia delle meraviglie, Gregory Peck e Clark Gable. Alla Signorina Linda Personeni di Bergamo che gli chiedeva quale fosse il suo personaggio preferito, Gregory Peck rispose Re David perché era insieme un poeta, un guerriero, un santo e un peccatore. Ma lui, Gregory, era qualcosa di più raro, un gentiluomo: chi mai avrebbe consegnato alla principessina Audrey le preziose foto del loro amore? A Clark Gable, nel 1951 di passaggio per Villa d’Este, la Signora Miracco chiese: “Ma nella Pista di fuoco del film ‘Indianapolis’ guida lei o una controfigura?”. E lui: “Se vede passare una Jaguar targata G. B. 420 MDU sono io che corro sulla pista di fuoco”. Chissà se al celebre attore qualcuno aveva detto che a Villa d’Este, tre anni prima, la contessa Pia Bellentani a sua volta aveva fatto grande cinema, mettendo in scena l’omicidio del suo amante, l’industriale comasco Carlo Sacchi, suscitando in tutti un incredibile entusiasmo. Nel 1952 ecco la Bellentani sulla copertina di Epoca, lo sguardo perso, i capelli sporchi, nel manicomio di Aversa.

     

    Mi prese una gran voglia di rispondere anch’io a quelle domande, vivi o morti che fossero i miei interlocutori; voglia che insiste tuttora. Cataste di Epoca, Grazia, Oggi, Il Tempo, L’Europeo, occupano il mio studio. Lisa Cerreti da Messina, dal 1950 mi chiede: “I fiori artificiali mi danno sempre un senso di squallore e anche di sciattezza, ma mi attirano; mi attirano perché hanno la facoltà di farmi pensare a lungo alle cose che passano e a quelle che restano; però se ho l’impressione che in una casa siano morti (e anche la casa dove li vedo sia morta) altrove mi garbano e mi fanno piacere, per esempio sugli abiti: che cosa ne pensate voialtri?”. Con i dovuti sessantasei anni di ritardo, le rispondo: “Gentile Lisa, più volte mi capita di pronunciare il verbo ‘sfiorire’. Se in doccia mi cadono alcuni capelli ‘sto sfiorendo’; se mi accorgo di non pensare più a una persona come in passato, costei ‘sfiorisce’, e un po’ anch’io, la nostra storia che pure sembrava senza fine. Ai fiori artificiali è proibito sfiorire; stanno là dove stanno e si logorano in eterno, consunti, zuppi di pioggia, sporchi di terra e polvere. Da anni in cimitero mi prendo cura di Elisa Bardi, la dirimpettaia di mia nonna. Elisa è morta a diciotto anni nel 1918, mentre infuriava la battaglia sul Monte Grappa. L’annovero tra i miei cari, pulisco la sua fotografia e i fiori artificiali. Non so quanti anni abbiano quei fiori e chi li abbia portati lì la prima volta, se un suo parente o uno di quegli zingari che fanno giustizia di notte nei cimiteri distribuendo i fiori a chi non li ha. E’ bello prendersi cura dei fiori che qualcun altro ha portato. Sa, Signora Lisa, nessuno li chiama più ‘fiori artificiali’, ora li chiamano ‘finti’: i fiori finti. Cos’hanno in fondo di finto questi fiori fatti di stoffa? Se per ogni fiore artificiale che decora una lapide percepissimo il brulichio delle dita che l’hanno composto, quanto fermento nei cimiteri! Eppure sono fiori sfortunati questi fiori sempre in fiore; tragici, ben diversi dai compagni di carne e clorofilla cui è concesso morire. Per questo ad alcune donne piace portare i fiori di stoffa sugli abiti, sfoggiandoli fino al giorno della morte, a costo di recitare la vita. Un fiore a lei, cara Lisa. Sofia”.

     

    Suona il campanello. Il postino tiene in mano un pacchetto e sul pacchetto c’è scritto “Sofia Silva” in corsivo, con i puntini sulle i e la gambetta alle a. Cerco uno sguardo d’intesa con il messo di eBay, lui sputa per terra e risale in Vespa. Avete notato anche voi che dal 2013 gli italiani hanno preso a sputare sui marciapiedi? Scarto il pacchetto. Delicatamente, come una reliquia, sta sulle mie mani: Grazia, numero 478, 22 aprile 1950. Sfogliarlo è abbandonarsi a un liquore senza tempo. L’articolo d’apertura s’intitola “Franchezza in amore”, un delirio in cui vengono intervistati Katherine Hepburn, Henry Wallace, Frank Capra, Charlot, il pugile Jack Dempsey e lo scrittore Henry Bordeaux. Il tema è la sincerità tra coniugi. Bisogna proprio dirsi tutto? Fantasie, dolciumi e scappatelle? Conclusione: sì e no. Fulminante uppercut di Dempsey: “La vita è un match di box dove tutti i colpi sono permessi… meno quelli bassi”. Quaranta pagine più in là un tocco di amore vintage: all’interno della rubrica “Ditelo pure a me” la signora Quickly risponde a una lettera firmata N. N. Tarantella. Quickly scrive: “Un uomo di 72 anni (diconsi anni settantadue) sta per sposarsi con una donna di 52 (diconsi cinquantadue) da tutti – e perciò anche dal futuro marito – reputata un modello di virtù. Sventuratamente la fidanzata ha commesso un fallo. Deve o non deve confessarlo? E se non è perdonata? Secondo me, N. N. Tarantella non deve stare in pena. Se non temessi d’essere fraintesa, vorrei dire che appunto perché ha commesso un peccato – e cioè ha sperimentato il fascino della colpa – e nonostante ciò ha saputo in seguito astenersene, proprio per questo ha diritto d’esser considerata una brava donna. Lo è indubbiamente più – o a ragion più veduta – di tante zitellone cinquantenni che dell’amore hanno conosciuto soltanto le nostalgie. D’altronde non credo che un uomo sulla settantina, sposandosi ad una donna di cinquant’anni, si preoccupi molto del suo passato. La sposa per quel che è, non per quel che è stata. Naturalmente io parlo come se la “colpa” di cui mi si scrive sia una cosa ormai definitivamente dimenticata, della quale nessun’eco rischi d’essere risvegliata. Solo in questo caso consiglio il silenzio. Ma se, per una qualsiasi sfortunata combinazione, lui potesse venire a conoscenza della verità, allora non si dovrebbe aver paura d’essere sinceri. Credo fermamente che il suo amore – un amore che non può non avere ormai superato tutti gli impacci e tutti gli impeti dell’istinto per purificarsi in un’intesa soprattutto spirituale – saprebbe comprendere e perdonare. Però, eh? cinquantadue…”.

     

    [**Video_box_2**]Sublime Signora Quickly, il suo fraseggio è un teorema quale solo il Borromini poteva tracciare in una notte di maestosa riflessione. Una voce nobile e partecipe, dove ogni parola è avvitata in una memorabile colpa da tenersi ben stretta, pur condannandola agli inferi. Così si scriveva nei davvero formidabili anni Cinquanta, quando padroni e servi si guardavano in faccia. Colpo di scena, dopo un intero giorno dal mio appello, ecco che dal calunniato Facebook arriva un titolo da parte di un signore che mi ha aggiunta cinque anni fa e che per tutto questo tempo è rimasto in silenzio. Divoro “L’imprevedibile destino di Emily Fox-Seton”, m’inchino alla centenaria puntualità di Astoria edizioni e alla bella traduzione di Alessandra Ribolini, evviva Frances Hodgson Burnett che scrisse il romanzo in cinque gelide settimane nell’inverno londinese dell’anno 1900. Vi si racconta la storia tra un marchese “le cui qualità non sono in realtà così degne di esaltazione” e una donna sulla trentina buona e grata “con gli occhi onesti come quelli di un golden retriever”. Lui la sceglie in quattro e quattr’otto tra molte bellezze perché lei non fa moine, lei si stupisce per cinque minuti, arrossisce (sul collo, non sulle guance), cade in amore. S’incontrano, parlano e si sposano nel giro di cento pagine e due pic-nic. Insieme svolgono attività di questo tipo: “Si fecero un po’ più vicini, questa coppia priva di comunicativa. Lui si sfilò il monocolo e le diede qualche buffetto sulla spalla”; l’autrice non spruzza mai il profumo dell’amore e della passione, bensì quello di una “sensazione nuova molto simile al piacere”. Per almeno tremila battute Hodgson Burnett insiste a dire che la sua eroina, Emily, “non è abbastanza intelligente”, non è “clever”. Grazie a Dio, finalmente una donna che non è intelligente!

     

    Fine del romanzo. C’è anche un sequel dove Emily partorisce un’erede al suo marchese, sennonché costui va in viaggio e lascia la puerpera in compagnia di un parente malevolo, della di lui moglie, una sadica indiana, e della di lei balia, una strega animista con tendenze omicide. Non m’inoltro, lascio al lettore immaginare cosa mai possano fare una puerpera, un parente malevolo, una sadica indiana e una strega animista… Assolutamente niente, niente di niente, tutti sono come prima, nemmeno la morte li scalfisce, favolosi risorgono, il tè li attende  e il “piccolo scone imburrato” che chiude il romanzo. A ispirarli sono gli “stati di minoranza” di cui parla Timida da Arezzo in una lettera a Epoca dell’aprile 1953: “Ho dodici anni, frequento la seconda media, sono carina, ma ho un difetto: ogni volta che un ragazzo mi guarda divento rossa. Vorrei eliminare questo stato di minoranza”. Cara Timida da Arezzo, t’immagino pallida passeggiare, la mano nella mano di tua madre che con dolcezza ti guarda e tu ti stringi nel cappotto, insofferente. Quando rialzi la testa ecco che avvampi simile a una lanterna cinese sotto gli sguardi dei ragazzini. Ti chiedo, come arrossisci? Se sono solo le tue guance a tingersi di rosso allora il tuo è un delizioso dono e darai il primo bacio entro i quindici anni; se, come Emily, arrossisci sul collo, ci vorrà un po’ più di tempo e dovrai imparare a far risalire il sangue dalla gola alle gote. Un buon metodo è parlare tantissimo, ogni parola stappa un capillare. Se invece, come sciaguratamente succede anche a me, ti si colora tutta la faccia, fronte mento guance orecchie, e diventi calda, una testa calda, allora rassegnati. Alla minoranza? No, alla guerra. In quel rosso acceso dove Lui si compiace di leggere la tua resa, c’è invece una sfida, un segnale che lo invita a bruciarsi le dita.