Cristina D'Avena durante la conferenza stampa a Sanremo (LaPresse)

Noi, trenta-quarantenni che stasera guarderemo Sanremo perché c'è Cristina D'Avena

Simonetta Sciandivasci
Per quei piccoli, made in anni Ottanta/Novanta, adesso adulti, improvvisamente già grandi, Cristina è tornata in scena a dire loro che, in fondo, non andrà mai via quel decennio lungo fatto di merendine a km mille, America buona, capitalismo vincente, futuro promettente, televisione che si chiamava Tele. Ai suoi concerti ancora oggi urlano, esaltati dal ricordo di un'enorme fortuna: essere stati allevati senza ossessioni pedagogiche.

Trenta-quarantenni al potere: se pure in ritardo sul resto d'Europa, l'Italia può barrare la casella. Ce li abbiamo anche noi. Il festival di Sanremo lo sa e, per il gran finale di questa sera, ha invitato la cantantessa della loro infanzia (il solo vessillo capace di unirli, se non proprio di rappresentarli), la sorella per amica, la tata, la fata, l'elisir blocca giovinezza, l'icona. Cristina D'Avena salirà sul palco dell'Ariston e sarà quasi magia, anzi, magia e basta, pura e completa. Magia che rima con nostalgia.

 

 

Per quei piccoli, made in anni Ottanta/Novanta, adesso adulti, improvvisamente già grandi, Cristina è tornata in scena a dire loro che, in fondo, non andrà mai via quel decennio lungo fatto di merendine a km mille, America buona, capitalismo vincente, futuro promettente, televisione che si chiamava Tele, come fosse una di famiglia, quando da loro non ci si aspettava nient'altro che cantassero sdraiati sul divano e che fossero bambini, predatori del tempo della spensieratezza. Quel momento vive e vivrà dentro ciascuno di loro, li ha resi speciali, li ha resi una generazione, probabilmente l'ultima con un tratto riconoscibile, un rimando cui nessuno può sottrarsi e a cui, soprattutto, a nessuno dispiace venire ricondotto. Denver, I Puffi, I Gemelli del Destino, Mila& Shiro: a tutti i cartoni animati alle cui sigle Cristina D'Avena ha prestato voce, anima e carriera è concesso il lusso di essere voce unica di una generazione altrimenti frammentata, alla quale si nega il futuro, ma della quale si fa splendere il passato. Ed è esattamente lì una parte del segreto di Cristina, in quel togliere che contiene un dare.

 

L'altra parte di quel segreto è la sua immutabilità: stessa voce, stesso corpo da vent’anni. Quando, ai suoi concerti, prova a cantare qualcosa che non sia contenuto negli album di Fivelandia (che raccoglievano tutte le sigle dei cartoni animati andati in onda sulle reti Fininvest), i fan fischiano, rivogliono immediatamente Holly & Benji. Rivogliono l'esatta riproduzione dei pomeriggi dopo la scuola, quando si aspettava il riscatto di Dolce Candy e la sua vittoria sul classismo alto-borghese, sulla sfiga, sui perfidi occhi viola della cugina stronza. Chiedono di essere ricondotti a quelle ore in cui da loro non ci si aspettava null'altro che restassero sdraiati sul divano a cantare. I concerti che da pochi anni imperversano in tutt'Italia, registrando il tutto esaurito (lo share sanremese, quindi, questa sera potrebbe toccare vette da record e rubare spettatori persino a Juve-Napoli: uno spostamento impensabile se, in mondovisione, ci fosse Dio a spiegare la formula della sua esistenza), sono "riti collettivi".

 

 

Così li ha definiti, qualche mese fa su Internazionale, Paola Soriga in un reportage dal Piper (storico locale della swinging Roma), dove Cristina aveva mandato in visibilio centinaia di ragazzi. Soriga si aspettava di incontrare nerd e/o disperati adulti col complesso cronico di Edipo e invece c'erano i "normali", quelli che "leggono libri e ascoltano musica, non si curano di politica e centri sociali". Magari presuntuosi, perché convinti di potersi arrogare la prelazione di "ultima generazione cresciuta coi cartoni animati migliori, quelli belli" (non valori migliori, si badi bene: cartoni animati migliori). E’ con quell'arroganza che urlano "Mila&Shiro / due cuori nella pallavolo / che dolce sentimento è"? Improbabile. Urlano esaltati dal ricordo di un'enorme fortuna: essere stati allevati senza ossessioni pedagogiche.

 

 

Chissà se Cristina salirà sul palco dell'Ariston e canterà e basta o, come chi l'ha preceduta, impugnerà un nastro arcobaleno. Chissà se quel nastro lo spiegherà ricorrendo ai Puffi, corollario della trascurabilità della famiglia (nel loro villaggio non c'erano genitori, zii, nonni); a Denver, icona giurisprudenziale della stepchild adoption (il simpatico dinosauro erbivoro veniva adottato da un'intera comitiva di amici); a Mila, dimostrazione del fatto che si può crescere bene e pure campionesse anche in assenza di madre (scappata per inseguire i suoi sogni di realizzazione, dettaglio omesso dal padre, il quale preferisce dire alla figlia "la mamma è volata in cielo": fa soffrire meno una madre morta che una in carriera). Qualunque cosa dica o faccia, tanto, Cristina resterà sempre il pensiero felice che, se solo disponessero anche di polvere di fata, come richiede la ricetta di Peter Pan, quei ragazzi adulti userebbero per volare. Tutti in posti diversi.