Elton John con Carlo Conti a Sanremo (foto LaPresse)

Dal Super Bowl a Sanremo. Quando la politica si fa pop, il pop si fa politico

Manuel Peruzzo

Beyoncé durante la finale del campionato di football americano si è esibita in una performance piena di citazioni e sottotesti che rivendicavano l'orgoglio nero e l'integrazione sociale. Sul palco del Festival invece ci ha pensato Laura Pausini a parlare d'uguaglianza. Quell'abitudine delle popstar a fare dichiarazioni politiche che Elton John per una volta non ha seguito.

Non succede solo in questo paese. Le pop star lanciano di continuo dichiarazioni politiche. Lo fanno per opportunismo, per rafforzare l’identità del brand, per intrattenerci con la pretesa di impegno, o perché si convincono di essere modelli comportamentali imitabili e influencer potentissimi. A tal proposito, qualche giorno fa Beyoncé si è esibita al Super Bowl in una performance piena di citazioni e sottotesti: la corerografia strizzava l’occhio a Malcom X, i costumi e le pose citavano le Black Panther e celebravano Michael Jackson. Una ballerina reggeva un cartello con la scritta "giustizia per Mario Woods", ennesimo afroamericano ucciso dalla polizia. Non lo avessero spiegato i giornali ci saremmo concentrati sul parametro femminista più esplicito: Beyoncé che guadagna milioni cantando in mutande in una forma irraggiungibile. La canzone è Formation, il cui video è diventando immediatamente virale e segna un cambio stilistico.

 

 

Ieri sera tutti si aspettavano (o più propriamente speravano, per non morire di noia) dichiarazioni politiche da Elton John, super-ospite alla serata inaugurale del Festival di Sanremo, il quale è stato trasformato a sua insaputa in paladino del decreto Cirinnà. Le polemiche riguardavano la sola sua presenza: avendo avuto lui due bambini tramite maternità surrogata a qualcuno pareva evidente che bastasse un’inquadratura di troppo per diventare endorsement. Visto il clima di panico sembra impossibile che nel 1994 abbia potuto esibirsi con il drag queen Rul Paul in Don't go breaking my heart proprio all’Ariston, vestito da gioppino con colori che non metterebbe neppure Oscar Giannino o Roberto Formigoni. "Se non ci siamo scandalizzati allora, perché dovremmo scandalizzarci oggi”, ha commentato Carlo Conti.

 

 

“I came to slay, bitch”, canta Beyoncé. È venuta a trucidare, a spaccare tutto, a dar fastidio rivendicando con orgoglio le proprie radici, il sud degli Stati Uniti, e lo specifico etnico: naso, capelli e ovviamente culone, dimenato di continuo. Per ogni popstar che si espone c’è qualcuno che rimarca l’ovvio, cioè: come puoi tu miliardaria nata nel benessere farti portavoce del sottoproletariato nero. Siamo all’appropriazione della povertà per arricchirsi. Siccome le star non sono sprovvedute, anticipano le critiche dando molti soldi in beneficienza (che è il modo con cui ci si ripara da qualsiasi obiezione, o il lavaggio del denaro sporco dei legalmente molto ricchi). L'unico a non impietosirsi è Rudy Giuliani che l’ha criticata per aver attaccato la polizia, trasformando una pausa da una competizione sportiva in controversa dichiarazione politica anti poliziesca. Dove si crede di essere, a Hollywood?

 

Quando la politica si fa pop, il pop si fa politico. Forse siamo noi ad averne bisogno, visto che per appassionarci a una star non ci interessa più il sesso ma vogliamo l’impegno, la scesa in campo. E un po’ siamo rimasti delusi da Elton John che si è ben guardato dall'entrare nel dibattito politico italiano anche solo con una frase fuori posto: si è limitato a cantare due brani storicamente epocali, promuovere l’album in uscita, ricordarci l’importanza della carità cristiana nella beneficienza dei ricchi verso i poveri (cioè, ricordarci che lui la fa); poi ha preso i suoi fiori e se ne è andato. Il modo migliore per reagire alle polemiche che certamente gli avranno riferito: ignorarle completamente. E abbiamo pensato fosse ispirato al finale di Formation: sii cortese, la migliore vendetta sono i soldi.

 

[**Video_box_2**]La parte della Beyoncé nazionale è stata interpretata da Laura Pausini, altra super-ospite, la quale per annunciare Simili, un brano che non ha alcunché di gay-friendly, ha sentito di dover specificare: “Se siamo simili siamo tutti uguali. E dobbiamo proteggerci, non dividerci”. Era il suo pugno alzato. I lustrini arcobaleno, attaccati da altri cantanti in gara al microfono, sarebbero stati esornativi. Anche qui abbiamo rischiato di perdere il contenuto, distratti dall’idea di portarle la giacca della prima esibizione, aveva 18 anni. Non capita a tutti di poter entrare nella taglia di vent’anni prima, e quasi mai che ti stia addirittura larga.

 

Sappiamo che alle canzonette possiamo far dire più o meno qualsiasi cosa vogliamo, aggiustandone il messaggio a seconda dell’interpretazione che abbiamo intenzione di darne. E da sempre le politicizziamo per appassionarci, identificarci, o non morire di noia. Poi abbiamo iniziato a politicizzare direttamente chi quelle canzoni le canta. Chissà quand'è stata la prima volta che abbiamo chiesto l'opinione sulla politica interna a un cantante. Anche se nessuno lo ha chiesto alla Pausini, lei ha sentito di doverlo dire, per lealtà verso i fan, per far la sua parte di tutore dei diritti. Gli effetti non hanno tardato a manifestarsi. Qualcuno le ha urlato in diretta che la ama, qualcun altro le ha più sobriamente twittato: “Laura, affittami l’utero”.

Di più su questi argomenti: