“Non si tratta, come tante volte in passato, di una guerra per la conquista delle donne, ma per la riconquista” (foto LaPresse)

Le statue nude sono permalose

Adriano Sofri
C’è alla radio una signora dal tono simpatico, cordiale che, interpellata in qualità di musulmana iraniana studiosa di teologia a Roma, esorta alla ricchezza dell’incontro. Ci sono due estremismi, dice: uno vuole coprire la donna fino a cancellarla, l’altro la scopre con lo stesso effetto.

C’è alla radio una signora dal tono simpatico, cordiale che, interpellata in qualità di musulmana iraniana studiosa di teologia a Roma, esorta alla ricchezza dell’incontro. Ci sono due estremismi, dice: uno vuole coprire la donna fino a cancellarla, l’altro la scopre con lo stesso effetto. La virtù sta nel mezzo, l’oriente, non solo quello islamico – anche il buddismo, dice – conosce la sapienza del velo che mette più in risalto la bellezza e accresce il godimento. Vediamo. Quella sapienza è nota anche da noi, anche in Finlandia, Oscar Wilde l’ha chiamata danza dei sette veli, noi la chiamiamo spogliarello. Ma anche a passarla come una qualità orientale, c’è un ostacolo invincibile all’incontro e alla lezione reciproca fra un luogo in cui abbigliarsi e disabbigliarsi sia affare della libertà personale e un luogo in cui sia un’imposizione fisica tassativa, le cui sanzioni possono arrivare alle frustate pubbliche e alla pena capitale. Inoltre: la sapienza supposta orientale assegna i veli alla donna, il godimento all’uomo. Ecco un altro pregiudizio a svantaggio dell’incontro, non solo fra oriente e occidente, ma fra donna e uomo, dovunque. Anni fa fui colpito dalla opinione di un grande antropologo, che l’avvento dell’islam avesse costituito l’ostacolo maggiore all’incontro culturale fra oriente e occidente.

 

Vediamo ancora. Vediamo l’argomento che chiameremo dell’“anche noi, fino a poco fa”. Anche noi abbiamo messo le brache ai nudi di Michelangelo. Fino a poco fa all’ingresso delle nostre chiese si intimava alle donne di entrare solo a capo coperto – forse in qualche chiesa il cartello è rimasto. Ecco: noi ci vergogniamo di quello che abbiamo pensato conveniente “fino a poco fa” e invece era sbagliato, ma siamo anche fieri di averlo capito, e capaci di difendere un progresso. (Il Progresso infatti non c’è, ma i progressi sì). L’argomento dell’“anche noi” è essenziale a fornirci la dose di relativismo necessaria a ogni intelligenza e a ogni socievolezza (lo diceva perfino il Papa Ratzinger nella sua campagna contro l’assolutismo relativista, benché passasse inosservato): il limite sta nella rinuncia o addirittura nel ripudio della propria coscienza. “Noi” gliele abbiamo tolte le brache al Giudizio. “Noi” – nella persona di un magistrato maschio del tribunale di Milano – nel 1966 abbiamo intimato a una liceale che aveva partecipato a un’inchiesta fra i suoi compagni sulla “posizione della donna nella nostra società, nel matrimonio, nel lavoro e nel sesso”, di spogliarsi, per accertare “la presenza di tare fisiche e psicologiche”.  Poi “noi” abbiamo assolto i ragazzi, e abbiamo fatto il Sessantotto.

 

Ma veniamo alla questione decisiva. Penso, con altri, non moltissimi, con altre (non tante) da qualche decina d’anni, che cresce nel mondo una guerra per e sul corpo delle donne. E’ diventato un facile luogo comune dopo che una notte di Colonia ha fatto cadere tutti dalle nuvole. Il punto di quella constatazione è un altro: che non si tratta, come tante volte in passato, di una guerra per la conquista delle donne, ma per la riconquista. Ha a che fare con donne che si sono ribellate e sono evase dalle innumerevoli galere in cui sono recluse, o minacciano di farlo. La sensibilità attribuita all’ospite iraniano, che ha indotto qualche infortunato a occultare le statue del Campidoglio, non è né orientale, né islamica né iraniana: è la sensibilità della teocrazia sciita al potere in Iran dal 1978-79. Nei primi tempi della rivoluzione khomeinista e della guerra Iran-Iraq andai in Iran e scrissi, fra tante cose più o meno passabili, un reportage sui monumenti. Prima delle rovine prodotte dalla guerra, la rivoluzione islamista aveva fatto la sua parte. Il più feroce e grottesco personaggio del nuovo regime, Sadegh Khalkhali, prese su sé la missione di fare giustizia del patrimonio storico iraniano. Cominciò col minare e far esplodere il mausoleo di Reza Scià, il fondatore della dinastia Pahlavi, e fin qui si era ancora nel solco delle rivoluzioni che abbattono i monumenti del nemico spodestato. (Ci sono statue di dittatori demolite salvando gli stivali, buoni per la statua del subentrato). Poi Khalkhali annunciò di essere pronto a distruggere le tombe di Dario, Serse e Artaserse a Naq-e-Rostam, e mosse davvero alla testa della sua banda di boia alla volta di Persepoli, per raderla al suolo. Fu fermato solo dalla resistenza di 60 operai, addetti ai cantieri permanenti dei palazzi di Dario e di Serse, e decisi a difendere con pale, picconi e anche qualche fucile il proprio posto di lavoro.

 

Quando andai abusivamente a Persepoli e scoprii questa fantastica storia – Persepoli salvata da una controffensiva sindacale – precisai che quegli operai erano ferventi islamici almeno quanto i loro attaccanti. Del resto lo scià aveva voluto celebrarsi a Persepoli agli occhi del mondo. A Isfahan non riuscii a vedere il famoso padiglione dei Sette Cieli, Hach Behesht, “chiuso per restauri”. Chiuso anche il padiglione delle Quaranta Colonne, Tchéhel Sotoun: anche qui restauri, guidati da italiani. Riuscii a entrare, ma i più belli di quei dipinti sefavidi – prima metà del sec.XVII – scene di ricevimenti di corte, con le figure mollemente eleganti dei dignitari, i suonatori di santur, le sinuose danzatrici, erano coperti da pannelli di legno. Contro l’umidità, mi disse pietosamente qualcuno, ma l’umidità minacciava solo i dipinti meno timorati, i banchetti regali e le deliziose cortigiane. I pannelli volevano salvare i dipinti dalla furia iconoclasta dei nuovi bigotti. Avevano appena smantellato la statua equestre di Scià Abbas, il padre del rinascimento di Isfahan. A Kashan, fu distrutto un “diwankhaneh”, luogo di ricevimento e amministrazione della giustizia, vecchio di tre secoli, e restaurato da poco. A Zawareh la moschea Pah-Menar, dell’XI secolo, che vantava il secondo minareto dell’Iran per antichità. A Mashad la moschea di Mirza Djafar. Fanatismo e speculazione edilizia si combinavano in simili imprese. Voglio dire che l’Iran in fesso omaggio al quale noi inscatoliamo le statue del Campidoglio è recente, passeggero, e vendicativo: contro un mondo in cui le danzatrici dei quadri danzavano e le ragazze di Teheran alta camminavano coi capelli al vento come le loro coetanee di Parigi. Il khomeinismo è stato il capitolo cruciale della vasta caccia alle donne evase che non ha fatto che allargarsi, si è estesa ai paesi a maggioranza sunnita, e ancora costituisce la posta decisiva della rivalità feroce fra sunniti e sciiti.

 

[**Video_box_2**]L’islam viene tirato in questa direzione per servire a una mobilitazione di grandi masse maschili frustrate e umiliate: di “proletari”, di diseredati, mostazafin, che appunto hanno da perdere, molto prima e più delle loro catene, le loro donne. Noi dovremmo essere avvertiti di questo meccanismo, del contraccolpo ai progressi, tanto più esasperato quanto più è toccato il nervo della sessualità: delle brache controriformiste ai nudi della Sistina, o dei “raptus” delle violenze maschili contro le “loro” donne – o “le donne di tutti” – nella nostra liberata società. Sono oggi sintomi dell’inadeguatezza privata alla trasformazione pubblica, terribili spesso ma inetti a riportare indietro la società. Ci sono delle battaglie perse, in occidente, come quella cosiddetta sulle unioni civili, e alcuni le combattono proprio perché sono perse, per esempio il nostro amico Giuliano, che lo sa e lo scrive. Perse, a meno che la risacca di mostruose violenze di islamisti contro islamici e contro ogni altra cultura, lasciate correre da noi quando non fomentate per calcolo o per ottusità, arrivi fino a spaventare le nostre notti di Capodanno. A meno che qualcuno, e la stessa chiesa, non vi veda una alleanza di fatto al proprio conservatorismo sessuale. C’è una parte della chiesa che ne è tentata, e la litania sulla fraternità fra le tre grandi religioni monoteiste è uno dei più disastrosi equivoci della sua predicazione. Abbiamo funzionari per i quali il presidente Rohani non può vedere la Venere capitolina, e Papa Bergoglio non può vedere i seni di Tamara de Lempicka. Si può evitare di mettere il vino a tavola o saltare una cena cerimoniale. Che cosa faremo con la Messa? Là, prima della transustanziazione, il vino è ancora vino. A proposito, in quel soggiorno iraniano un ospite mi recitò i versi di Hafez: Un vino vecchio di due anni e una ragazza di quattordici anni sono tutto ciò che mi basta. A parte la ragazza, dunque anche il vino? No, si affrettò a spiegare, sono immagini d’altro, il vino del Corano e gli anni delle vicende di Muhammad.

 

Ancora, la licenza di caccia alla libertà delle donne non è all’ordine del giorno da noi, se non nelle violenze private domestiche e no. Da noi non è ancora attuale il ritorno della censura: è il tempo dell’autocensura. Abbiamo tanto amato la poesia di Kavafis da convincerci sul serio che bisogni vestirsi bene e andare fuori porta ad accogliere i barbari. I barbari, intendo, i tagliagole e i castigatori di bambine e omosessuali, non le loro vittime, quelli che arrivano da noi cercando scampo. La manifestazione che alla nostra attuale latitudine si affianca alla guerra guerreggiata per la riconquista delle donne è il cedimento ruffiano o benintenzionato – il secondo meno odioso ma forse più disastroso del primo – alla “sensibilità” dei nostri ospiti, quelli di cui riteniamo che non possano vedere statue nude e donne a capo scoperto. Le nostre statue in particolare sono permalose: infelice il paese che, temendo di offendere il turbante di un ospite straniero, offenda le proprie statue nude.

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