Il checkpoint Charlie (nella foto) era il punto di frontiera tra le zone americana e sovietica di Berlino, oggi è diventato un museo

Chiudere Schengen non è un vulnus alla libertà per chi è nato con le Torri Gemelle

Giulia Pompili
Se quella dei millennial fosse davvero una generazione senza frontiere, non sarebbe stato Schengen a renderla tale. La retorica con la quale si accompagna, in questi giorni, l’ipotesi che l’Europa possa sospendere il trattato di libera circolazione delle persone non è soltanto molto lontana dalla realtà, ma nasce da un fraintendimento.

Se quella dei millennial fosse davvero una generazione senza frontiere, non sarebbe stato Schengen a renderla tale. La retorica con la quale si accompagna, in questi giorni, l’ipotesi che l’Europa possa sospendere il trattato di libera circolazione delle persone non è soltanto molto lontana dalla realtà, ma nasce da un fraintendimento. E’ vero che i nati negli anni Ottanta, oggi trentenni, non hanno mai attraversato una vera frontiera, quando da maggiorenni iniziavano a viaggiare tra Parigi, Berlino, Madrid. Per andare in vacanza a Ibiza oppure seguire un dottorato alla Sorbona, a un millennial è sempre bastata soltanto una carta d’identità, nemmeno da esibire alla dogana. Invece per i loro genitori (la generazione X) il primo passaporto era stato una conquista. In fondo anche Schengen ha i suoi confini, che non sono poi così lontani: chiedetelo a quei 165 mila italiani che lavorano in Inghilterra – secondo paese di destinazione per italiani emigrati, che non fa parte dell’area Schengen – e attraversano una frontiera più volte l’anno.

 

A rendere quella dei millennial una generazione senza confini è stato piuttosto il boom delle compagnie low cost, che negli ultimi quindici anni, paradossalmente, ha reso i confini della “libera circolazione” europea ancora più stretti. Quella, semmai, dipende da quanti soldi puoi permetterti di spendere. Gli accordi di Schengen non sono stati una rivoluzione culturale cui rimanere affezionati per chi è crescito con la possibilità di vivere in uno stato di globalizzazione permanente: internet, la terza rivoluzione industriale, la comunicazione e via dicendo. Ma c’è di più. Chi è nato negli anni Ottanta aveva un’età tale da comprendere che cosa stava accadendo quella mattina, a New York. Era iniziata una guerra nuova, complessa, ma pur sempre una guerra. L’11 settembre ha portato con sé l’idea che una maggiore sicurezza, in fondo, avrebbe potuto proteggerci. La maggior parte dei millennial ha interiorizzato quel messaggio, le sue regole, le contromisure che ne sono derivate. Vuol dire farsi scansionare il corpo da un aggeggio, vuol dire tirare fuori il passaporto (elettronico). I millennial hanno vissuto tutto questo come un “normale” passaggio della loro crescita, lo hanno interiorizzato. Forse sono quelli della generazione X che ancora non riescono a mandarla giù.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.