L'improvviso silenzio delle femministe sull'utero in affitto per non sembrare “omofobe”

Redazione
Pare di assistere a un fenomeno di omologazione del femminismo nel grigiore conformista del “politicamente corretto”. Se la parola mercificazione ha un senso, l’utero in affitto ne è un esempio palmare.

Si fa fatica a comprendere come mai il femminismo, che si è caratterizzato per la sua opposizione fermissima alla mercificazione del corpo della donna operato dalla società dei consumi, consideri invece la pratica dell’utero in affitto una sorta di diritto invece che una forma particolarmente odiosa di sfruttamento. Non si tratta, fortunatamente, di un’opinione unanimemente condivisa: le donne di un movimento denominato “senonoraquando libere” nella primavera dell’anno scorso avevano lanciato un appello contro la maternità surrogata, in cui si poteva leggere: “Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione”. Tuttavia, ora che è in discussione la legge sulle unioni civili e l’articolo che prevede l’adozione dei figli naturali del partner (che ha una evidente connessione con la questione della maternità surrogata) quella battaglia è stata messa in mora, per timore di subire un’accusa di omofobia.

 

Il valore particolare del movimento femminista è stata proprio la concentrazione sulla tematica della “autogestione” del corpo della donna. In questo il movimento si è differenziato dalle campagne per l’emancipazione e per la parità, che già si erano affermate nei secoli precedenti. La liberazione della donna anche dai condizionamenti più sottili insiti in una civiltà secolarizzata è un obiettivo diverso da quello del rispetto della persona umana, proprio per la sua carica di unilateralità che reagisce all’unilateralità opposta, quella del dominio del punto di vista maschile che ha attraversato tutta la storia dell’umanità. E’ anche grazie a questa unilateralità contundente che il femminismo ha imposto le sue tematiche in una cultura moderna che si caratterizza per l’immensa pluralità e confusione delle fonti.

 

Ora invece pare di assistere a un fenomeno di omologazione del femminismo nel grigiore conformista del “politicamente corretto”. Eppure dovrebbe essere evidente che l’uso degli organi riproduttivi della donna per scopi e interessi altrui è assai più grave dell’esibizione di qualche parte anatomica a scopo commerciale o pubblicitario. Se la parola mercificazione ha un senso, l’utero in affitto ne è un esempio palmare.

 

[**Video_box_2**]La tesi che considera questa pratica come espressione della libertà e dell’autodeterminazione della donna è almeno altrettanto fasulla di quella che giustifica qualsiasi forma di degradazione e di sottomissione perché sarebbe gradita a chi la subisce. Il femminismo ha insegnato a tutti a riconoscere il peso di condizionamenti economici, sociali, religiosi o di costume che negano la libertà della donna. E’ curioso che ora l’attenzione al carattere oppressivo e di sfruttamento insito nella maternità surrogata venga attenuata, così come episodi di violenza maschilista come quelli di Colonia siano edulcorati a causa dell’origine etnica dei molestatori.

 

Il pregio del movimento femminista è stato quello di di non farsi ingabbiare in una generica koynè “progressista”, il che ha prodotto anche momenti sgradevoli per tutti, ma ha preservato la specificità, unilaterale fin che si vuole, del messaggio di liberazione della donna. Una specificità che ora pare ammutolirsi.

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