Prendete appunti
Credo sia stata colpa di Ashley Madison. Intendiamoci, non mi sono iscritta al “più grande sito di tradimenti” per rimediare compagnia. L’ho fatto per motivi professionali: avrei voluto scrivere la classica pagina sui tradimenti nell’èra delle app, il fatto è che dopo due giorni di risposte automatiche (AM ti aiuta se non hai tempo di rispondere a tutte le richieste), due giorni di foto di membri eretti tutti uguali, accompagnate da violenti errori grammaticali, beh, ho lasciato stare. Il problema? Ormai Ashley Madison aveva la mia email. Hai voglia a spiegare che improvvisamente stavo rivalutando il bar, il Martini, i 4,5 secondi di sguardo che, secondo gli scienziati, sono il linguaggio non verbale per dire: andiamo a casa tua. Ashley Madison aveva il mio indirizzo e infatti a qualche giorno dalla mia iscrizione sono iniziate le email di spam. Sempre più articolate e subdole. Segue conversazione con il mio fido compagno di desk Eugenio Cau, custode ultimo delle verità tecnologiche: “Naturalmente cambia tutte le password”. “Ma come, tutte?”. “Beh, andrebbe fatto comunque, periodicamente”. “Ma non posso impararle di nuovo tutte a memoria”. “Esistono dei programmi per custodire le password”. “Eh? Io le segno sulle note dell’iPhone”. Secondo la polizia postale, il programmino di hackeraggio più facile da comprare in rete è un trojan. Una volta istallato, vede tutto ciò che vede il vostro smartphone, proietta su un altro schermo qualunque cosa facciate con il vostro cellulare, il cazzeggio su Facebook, lo scroll compulsivo di Twitter, il (figlio di) trojan vede quello che vedono i vostri occhi. Compresa la pagina delle note dove appuntate le password.
A questo punto della storia, direte voi, ho scoperto l’acqua calda. E invece no, perché tutto si tiene. Mi spiego. Dopo aver appuntato le nuove password su carta, nell’agenda, improvvisamente non avevo più bisogno di consultare alcunché. Miracolo: le ricordavo. La faccenda iniziava a interessarmi. Mario Sechi, per esempio, tiene su questo giornale una rubrica che si chiama List, con gli appunti delle notizie del giorno tirati fuori dal suo taccuino. E non è una trovata da cronista nostalgico. Sechi usa davvero il quadernetto come io uso lo smartphone – stesso tipo di dipendenza fisica dall’oggetto – solo che mentre io appunto sulle note dell’iPhone e automaticamente dimentico (pur rivendicando un certo orgoglio generazionale), lui scrivendo memorizza, classifica, dà priorità alle notizie. Se avrete mai la fortuna di pranzare con Pietrangelo Buttafuoco, noterete che anche lui, di tanto in tanto, tira fuori il taccuino e si mette a scrivere, ma senza ignorare l’interlocutore: scrive e basta.
Il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, prende gli appunti della riunione di redazione su un quadernone formato A4, con copertina rigida. Paola Peduzzi appunta ogni cosa (ripeto, ogni cosa) su un leggendario quaderno a righe, un po’ più piccolo dell’iPad, “perché stia comodamente nella borsa”. E mentre Mariarosa Mancuso ammette di non sopravvivere senza l’agenda, Vincino disegna alla vecchia maniera e poi manda ai grafici del giornale le fotografie delle vignette, Salvatore Merlo scrive ovunque, sugli angoli dei giornali, sui fogli di carta da buttare, e poi su un taccuino che, per dimensioni, “deve entrare nella tasca dell’abito”. Tutte queste persone hanno in comune un nome, che nel corso degli anni è diventato quello che la Rimmel è per il mascara. I taccuini, le agende, le idee, rispondono al nome di Moleskine. Un’azienda italiana, nata da una piccola società milanese nel 1997, che in meno di vent’anni è diventata il marchio di fabbrica di tutto ciò che ha a che fare con scrittura, creatività, immaginazione. E allora la domanda è spontanea: come è possibile che oggi, nell’èra della rivoluzione informatica, un’azienda che fa prodotti di carta abbia un ricavo netto che nei primi nove mesi di quest’anno ha raggiunto gli 86,4 milioni di euro, in aumento del 32,8 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente? Come è possibile che questa azienda abbia attraversato esattamente quel periodo lì, quello dell’informatizzazione, non smettendo mai di crescere? E cosa c’entra tutto questo con Ashley Madison? C’entra, perché il mese scorso Moleskine ha annunciato l’apertura del suo primo bar, all’aeroporto di Ginevra.
Naturalmente il caffè, l’ultimo dei progetti del management dell’azienda, è solo un pretesto. Ma dopo aver fatto in modo che tutti capissero che di sola tecnologia non si vive, non è che Moleskine adesso vuole spiegarci che pure le relazioni, se integrate con la chiacchiera analogica, funzionano meglio? Siamo andati a parlarne con Arrigo Berni, amministratore delegato di Moleskine, nella sua sede milanese appena a nord del quartiere Isola. Una ex manifattura rinnovata con un open space un po’ anomalo, in continua espansione. Nella sala d’aspetto, sul tavolo, c’è una guida turistica di Shanghai e il best-seller del cinese-americano Scott D. Seligman, “Chinese Business Etiquette”, vademecum per fare affari a Pechino. “Ti ricordi com’era nato Starbucks?”, mi domanda Berni. Da quando è alla guida di Moleskine, correva l’anno 2006, è stato intervistato da Bloomberg, Fortune, Wall Street Journal, New Yorker – per parlare solo delle testate anglosassoni – tutti curiosi di sapere come abbia fatto a portare un’azienda italiana a essere leader nel mondo di quella che viene definita la “cartoleria di lusso”, a trasformare un taccuino nell’“archivio analogico” di chiunque lavori con la creatività, a vendere la carta a chi di sicuro possiede già un iPad. “Ti ricordi com’era nato Starbucks? Non come un bar dove prendere un caffè. Voleva essere un luogo dove passare del tempo, accogliente e riconoscibile. Nel corso degli anni l’idea originale è stata persa. Vogliamo farla nostra, adesso”. E però, più che Starbucks, nei bar di Moleskine c’è qualcosa che somiglia ai caffè letterari di Parigi, o comunque a un’interpretazione contemporanea di quel che accadeva lì: creatività. E business. Non è un caso che il primo bar di Moleskine sia stato aperto in un aeroporto. Perché a rincorrere continuamente la storia dell’azienda c’è il tema del viaggio, le stazioni ferroviarie, i luoghi frequentati dal prototipo di persona che usa i quaderni Moleskine - o per dirla in modo più cinico, dal target di clienti individuato dall’azienda.
La sfida di Moleskine, oggi, è quella di integrare perfettamente il mondo tradizionale dell’analogico con quello delle nuove tecnologie. Quello che tenta di fare, da vent’anni a questa parte, l’intero mondo dell’editoria. Ed è per questo che la storia di Moleskine è interessante, perché può aiutarci a capire verso quale direzione stiamo andando, senza farci prendere dal panico dell’ipertech: deve esserci un motivo se lo scorso anno sono stati venduti diciassette milioni di taccuini nel mondo, no? Per Berni è proprio quell’idea di integrazione tra analogico e digitale a essere vincente: “Ma non siamo noi a dirlo, lo dicono i dati”. “Cinque anni fa il mondo dei libri è stato colto da un panico collettivo sull’incerto futuro della stampa”, scriveva Alexandra Alert un paio di mesi fa sul New York Times, “eppure l’apocalisse digitale non è mai arrivata, o comunque non è in programma. Gli analisti prevedevano che gli e-book nel 2015 avrebbero superato i libri di carta, e invece le vendite elettroniche sono notevolmente rallentate”. Quello del mercato degli ebook, secondo Berni, è un esempio lampante di ciò che definisce “moda tecnologica”: “Il mondo non sta andando nella direzione della sola tecnologia, ma verso una fusione tra creatività e tecnologia. I giovani, oggi, utilizzano vari supporti”, dice Berni, e mi mostra vari grafici. Nel primo, un sondaggio di Scholastic e YouGov dice che nel 2014 il 55 per cento dei ragazzi americani, compresi tra i 6 e i 17 anni, preferisce il libro stampato, mentre il 34 per cento non ha preferenze tra carta e digitale. Berni mi mostra un altro studio del Pew Research: nel gennaio del 2014 sette adulti su dieci (69 per cento) dicevano di aver letto almeno un libro di carta nel corso dei dodici mesi precedenti. Un altro sondaggio online di Subtraction, il blog del designer e imprenditore Khoi Vinh, è ancora più preciso: la domanda era indirizzata ai “creativi”, designer, architetti, disegnatori, etc. Qual è il supporto che usate per l’idea primaria, originale? Il sessantaquattro per cento dei quattromila intervistati risponde: matita e carta. “C’è una continuità di uso, la contrapposizione tra analogico e digitale è solo nella testa di alcuni tecnologi e analisti poco profondi, che vedono il mondo diviso in due. Noi non abbiamo mai percepito il digitale come un antagonista del nostro business. Anzi, per la verità noi non abbiamo mai pensato di essere soltanto un taccuino”. E infatti questa fluidità è alla base del primo grande progetto di Moleskine, la collaborazione con Evernote, con cui produce un sistema capace di salvare gli schizzi fatti su carta in formato digitale. “Evernote è un’azienda che è nata con il solo obiettivo di produrre un rimpiazzo per la carta. Alla fine, si è messa a lavorare con noi”.
Ora però bisogna fare un passo indietro, e ripercorrere la storia di Moleskine. E’ lo stesso Berni a raccontarcela, e lo fa con l’aria di chi è stato chiamato a dirigere l’azienda, nel 2006, solo per migliorarla. E questo nonostante l’anno successivo un signore di nome Steve Jobs avrebbe lanciato sul mercato l’apparecchio più rivoluzionario del secolo: “Nove anni fa Moleskine aveva diciannove dipendenti e faceva venti milioni di fatturato l’anno. La vecchia proprietà aveva capito le potenzialità dell’azienda ma serviva fare un salto di qualità nel business internazionale, per questo hanno venduto. Oggi siamo 260 persone e cinque sedi: Milano, Colonia, New York, Hong Kong, Shanghai”. Fin qui è tutto chiaro: ma il segreto, esattamente, qual è stato? “Non mettere sul mercato solo un taccuino, non fare soltanto business di cartoleria. Questa è una storia evocativa”. Ceci n’est pas un cahier? “Esatto. Nel 1997 è stato messo in vendita ‘un libro ancora da scrivere’, con un racconto evocativo dietro, e dei testimonial inconsapevoli perfetti”, peraltro tutti morti, il che per un pubblicitario è un vantaggio.
La storia è questa. Siamo a metà degli anni Ottanta e due imprenditori molto diversi tra loro, Francesco Franceschi e Mario Baruzzi, aprono la cartoleria Modo&Modo. I due, legati dalla passione per il viaggio, iniziano a costruire un sistema di distribuzione di prodotti di design e, con la crisi degli anni Novanta, decidono di iniziare una linea di prodotti propri. “Si avvalgono non di consulenti di grido, ma di vari collaboratori uniti dalla passione per i viaggi e con un certo spessore culturale”, racconta Berni. “Con loro c’erano Maria Sebregondi – sociologa e consulente della comunicazione – e Fabio Rosciglione, responsabile commerciale ma soprattutto velista. Intuiscono, intorno alla metà degli anni Novanta, che stava crescendo un nuovo segmento di consumatori: la classe creativa, con un livello culturale elevato, dei professionisti non più legati a un territorio, a un ufficio, ma globalizzati e in movimento, e così registrano il marchio KeepMoving”. E i taccuini? Quando arrivano i taccuini? “In quel periodo, Maria stava leggendo Chatwin”.
A questo punto però dovete prendere “Le vie dei Canti” di Bruce Chatwin, lo scrittore di Sheffield che fece dei racconti di viaggio letteratura. Dovete andare alla pagina 214 dell’edizione Adelphi e capirete perché è lì che ha inizio tutto. Scrive Chatwin: “In Francia questi taccuini si chiamano carnets moleskines: moleskine, in questo caso, è la rilegatura di pelle cerata nera. Ogni volta che andavo a Parigi, ne compravo una scorta in una papeterie di Rue de l’Ancienne Comédie. Avevano le pagine quadrate e i risguardi trattenuti da un elastico. Li avevo numerati in progressione. Sul frontespizio scrivevo il mio nome e indirizzo e offrivo una ricompensa a chi lo ritrovava. Perdere il passaporto era l’ultima delle preoccupazioni. Perdere un taccuino era una catastrofe”. Prima di partire per l’Australia, Chatwin telefonò alla signora della papeterie parigina chiedendole cento taccuini, ma lei rispose che ormai era molto difficile trovarli. Anzi, impossibile: “Le vrai moleskine n’est plus”. Chatwin scrive “Le vie dei canti” nel 1987. “Dieci anni dopo”, dice Berni, “Maria Sebregondi va a cercare la cartoleria, che non aveva più quei taccuini. In pratica erano oggetti fuori mercato e senza nome”. Iniziano una ricerca: “Al museo di Picasso di Barcellona scoprono degli schizzi fatti su taccuini delle stesse caratteristiche di quelli di Chatwin. Quando raccontano l’idea alla loro amica Inge Feltrinelli, che in passato aveva frequentato i circoli letterari di Parigi, lei cosa fa? Tira fuori una fotografia di Hemingway con un taccuino vrai moleskine”. Il prodotto di punta della linea era deciso, e la distribuzione pure: dove vendere “un libro ancora da scrivere”, se non in una libreria? “E’ una storia di Made in Italy, ma solo se consideriamo Made in Italy l’aspetto più creativo dell’impresa”, dice Berni. Ho notato che su internet siete stati criticati perché producete i taccuini in Cina: “Lo abbiamo fatto sin dall’inizio. La Cina ha una tradizione di cartoleria millenaria. I taccuini sono ancora prodotti in parte in maniera artigianale, con quei difetti rendono ogni pezzo unico”.
[**Video_box_2**]Da allora a oggi Moleskine (ah, per gli indecisi: si legge molèschin) si è evoluta esponenzialmente. E Berni di tanto in tanto smette la narrazione e ci riporta alla realtà, per spiegare che ogni decisione nella vita dell’azienda è il frutto di uno studio di business. “Da dove nasce il bisogno della carta bianca su cui scrivere?”, mi domanda. E io sono lì, pronta a scrivere su un quadernetto la sua risposta: “I modelli di successo negli ultimi vent’anni sono cambiati radicalmente. La Silicon Valley ha diffuso il messaggio che seguire le proprie passioni è positivo. Ma non basta più il modello del manager di successo: l’idea è quella della disruption digitale”. Una continua rivoluzione. “Sì ma la vita reale è spesso molto diversa. La tensione scaturita da un modello e l’altro si incarna nella carta, in un taccuino”. Berni mi spiega che influiscono anche altri fattori, per esempio il settore della cartoleria in crescita, grazie alla maggiore alfabetizzazione, e la fetta di mercato di lusso: “Il 2014 ha segnato il primo anno della storia in cui il 54 per cento della popolazione mondiale vive nelle metropoli”. Inoltre, non è un caso se sono proprio i millennial, quelli nati col telefonino in mano, a manifestare più di tutti il bisogno dell’esperienza fisica: “Sta succedendo con il vinile, con la carta fotografica. E poi c’è il problema della infobesità, la necessità di riconquistare uno spazio mentale che analizzi il flusso di informazioni. La comunità scientifica sta studiando da anni la modalità di apprendimento attraverso la scrittura: si tratta di un’attività cerebrale complessa perché divisa in due tempi, prima la comprensione, la sintesi, e poi lo scrivere”. In fondo, il taccuino di Moleskine è sopravvissuto a Chatwin perché non è mai stato considerato in competizione con il digitale. Non si tratta di una scelta hipster, nostalgica. E’ sempre stato un’altra cosa. “Fondere la dimensione creativa con la tecnologia, è questo il segreto”. Bene, a presto. Rileggo gli appunti sul taccuino, e ti mando una email.
Antifascismo per definizione