L'importanza dei fantasmi. Dialogo con Maria Callas

Simonetta Sciandivasci
Mi volto e al mio fianco c’è Maria Callas, in allure Euridice. Mi chiede di non avere paura e io non ne ho: lei greca, io magnagreca, siamo abituate ai fantasmi. Le domando cosa ci faccia qui e mi racconta che non le bastava terrorizzare i loggionisti, voleva ampliare il suo raggio d’azione e quindi è passata alla Scala online.

Guardo online la tabella dei prezzi del biglietto per la prima della Scala: platea, palchi e galleria sono tutti a venti euro. Penso a una mossa di Renzi, tremo all’idea di diciottenni all’opera, ipotizzo un piano del Califfo e un attimo prima di twittare a Pisapia una richiesta di spiegazioni, sento una vocina che mi consiglia di accorgermi che navigo sulla pagina sbagliata. Scorro in alto e scopro, infatti, di essere sul prezzario dell’anteprima dedicata ai giovani (che a Milano sono gli “under 30”, mentre nel resto d’Italia sono gli under 40) e forse un po’ mi rincuoro. “Credevi che il più importante teatro lirico del mondo fosse sceso tanto in basso?”, mi dice quella vocina che, a questo punto, inizio a pensare che non sia quella ragione, né quella della memoria del corso per patente europea del pc. Mi volto e al mio fianco c’è Maria Callas, in allure Euridice. Mi chiede di non avere paura e io non ne ho: lei greca, io magnagreca, siamo abituate ai fantasmi.

 

Le domando cosa ci faccia qui e mi racconta che non le bastava terrorizzare i loggionisti, voleva ampliare il suo raggio d’azione e quindi è passata alla Scala online. Chissà se placherà mai la sua sete di vendetta per essere stata fischiata, a Milano (non oso proporle di approfittare del Giubileo della misericordia per pacificarsi). Mi dice anche che, di fantasmi, in quel teatro, ce ne sono troppi. Lei non sopporta, in particolare, Domenico Barbaja. “Chi?”, le domando e lei, senza sprecarsi a indignarsi – pratica troppo cheap persino per chi è pop, figuriamoci per lei, la donna-pianeta attorno alla quale gravita un satellite solo, l’Olimpo – risponde: “l’inventore del cappuccino”. Non mi fido: non vedo cosa dovrebbe farci il fantasma di uno così alla Scala e, mentre lei è distratta, lo cerco su Google e scopro che il Barbaja ha sì inventato il cappuccino, ma è stato pure il più grande impresario del teatro lirico d’Italia e non ha mai smesso, nemmeno dopo morto, di soffrire per un certo Rossini, che gli fregò la ragazza, Isabella Colbran, soprano. Non ho il tempo di guardare la Divina e interrogarla sul perché della sua omissione, che lei mi chiede se ho una vaga idea di come ci si presenti, in platea, il 7 dicembre. Non oso dirle che non ho 2 mila euro (tanto costa il biglietto in platea), lei però mi dà il tempo di volare pindaricamente in qualche cabina armadio non mia, di un tempo in cui la moda femminile non era mannish e il sesso femminile era secondo, sottomesso, svilito, ma proprio per questo rutilante e sfidante e la sua sfida era (anche) una continua concessione alla vanità. Ora che il secondo sesso è il primo sesso e ci sono esperte di moda che lo definiscono persino “radicale” (Giusy Ferrè, per essere precisi), si può ancora sperare di vestirsi da femmina lussureggiante senza venire lapidate, forse, solo alla prima della Scala (qualcuno ci ha provato, negli anni della crisi, a dire che bisognava mantenere un dress code sobrio, ma non resterà nella storia).

 

[**Video_box_2**]Dopo avermi spiegato che in un teatro dell’Opera non vale la regola dei matrimoni e quindi non si deve non oscurare la sposa, ma si può superare, in luccichii e sfarzosità, anche le dive sul palco, Maria Callas mi chiede se ho mai visto Anna Netrebko, la Giovanna D’Arco che quest’anno inaugura la stagione della Scala. L’ho vista eccome: imponente, baccante, bona, bella, in ogni foto più scollata (deve lasciar liberi trachea e cuore e diaframma), l’esatto opposto di Adele, che la supera un po’ in stazza e che è diventata icona del pop, del rock, della provocazione e del post femminismo andando in copertina, sul Rolling Stones, con addosso l’accappatoio e sulla faccia niente, nemmeno un po’ di Leocrema. Per dimostrare a tutti che lei i brividi felini ce li procura solo col suo talento e la sua diligenza. Quando l’abolizione della vanità femminile comincerà ad assomigliare all’iconoclastia, a salvarci ci saranno loro, le divine e la Divina, anche se la cosa ci costerà un posto in platea di 2 mila euro. “Non posso farti fare un pass”, mi sussurra Maria, che tra le tante cose, legge anche nel pensiero.

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